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Microcredito, la formula vincente è sul web

Prestare il proprio denaro senza interessi per aiutare chi a 10mila km di distanza ne farà buon uso per sé e per la sua famiglia è a portata di click. L’esempio di Kiva, no profit californiana

di Carlo Vitali 13 mag 2013 ore 10:07
Il lending (dall’inglese to lend = prestare) è la più rilevante tra le varie forme di crowdfunding, avendo raggiunto nel 2012 un volume annuale pari a 1,2 miliardi di dollari (45% del totale crowdfunding). A sua volta il lending si suddivide in due sottocategorie:

  • il peer-to-peer lending (o social lending) che si rivolge a persone “bancabili”, ossia che hanno accesso ai canali bancari tradizionali e in cui il prestatore riceve indietro oltre al capitale anche degli interessi;
  • il microcredito, che si rivolge a persone “non bancabili”, prevalentemente in paesi di via di sviluppo, e in cui il prestatore riceve indietro solo il capitale.
Se il peer-to-peer lending è di gran lunga più significativo in termine di volumi, è interessante approfondire il settore del microcredito anche per la sua forte valenza etica. Prendiamo come riferimento Kiva.org, organizzazione non profit californiana operante dal 2005, che ha raggiunto volumi e livelli di efficienza ragguardevoli. Dalle statistiche presenti sul suo sito si vede che dal 2005 ad oggi Kiva ha erogato 555mila prestiti per 430 milioni di dollari in 67 paesi diversi. Scorrendo le richieste di prestito presentate nella homepage si intuisce subito la loro provenienza dai paesi più a noi lontani e le finalità molto concrete e importanti per la vita economica delle famiglie, dall’acquisto di bestiame a materiali per l’agricoltura a prodotti per il piccolo commercio.

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Si tratta di importi poco rilevanti per i nostri parametri (l’importo medio del prestito è 405 dollari) e vengono finanziati sul sito dai prestatori (generalmente provenienti da paesi economicamente più evoluti, quasi 1 milione di persone ha già fatto prestiti su Kiva) che contribuiscono ognuno con una tranche di 25 dollari o multipli versata via PayPal. Il capitale restituito viene ricevuto sul proprio account Kiva per poter essere riprestato (il 75% fa così) oppure ritirato o donato a Kiva. Del tutto sorprendente il dato dei ripagamenti: è pari al 98,98%, irraggiungibile nei nostri canoni finanziari.

La parte più complessa è quella che coinvolge coloro che richiedono un prestito. Devono essere raggiunti negli angoli più remoti del globo  e ovviamente non hanno accesso a internet, oltre a non aver accesso alle banche. Kiva ha aggregato intorno a sé una rete di field partners (192), che sono prevalentemente delle MFI (MicroFinance Institutions) già operanti nel paese nel settore dei prestiti alle famiglie e alle piccole imprese. I field partner scandagliano il territorio raccogliendo le richieste, formalizzandole in uno schema standard e tornando in loco per raccogliere le rate e assistere la famiglia nel suo percorso. Tutto questo ha un costo e quindi in realtà i richiedenti pagano degli interessi, che vanno però al field partner per garantirne la sua sostenibilità e non al prestatore via web. Sono interessi che possono superare il 30% ma non devono scandalizzare, sono una conseguenza del piccolo importo del prestito e dei significativi costi di gestione. Inoltre, non va dimenticato che l’erogazione di questi micro prestiti ha un significato particolarmente elevato per i beneficiari raggiunti, i quali nella maggior parte dei casi non avrebbero altrimenti accesso ai canali di credito tradizionali.

Questo meccanismo implica anche che, per accorciare i tempi, il prestito sia erogato direttamente dal field partner e che quindi il prestatore in realtà va a rimborsare il field partner per il capitale prestato. Intorno a Kiva si è aggregata una community molto vivace. Spesso i prestatori si raggruppano in team in gara tra loro a chi fa più prestiti; ci sono 350 volontari (e qui siamo nel crowdsourcing) che si dedicano alla finalizzazione dei materiali descrittivi il prestito, traducendoli dalle lingue più disparate e omogeneizzandoli dal punto di vista del testo e della foto. 

Un’ultima annotazione: i “non bancabili” non sono una peculiarità dei paesi in via di sviluppo, sono dappertutto e non a caso Kiva ha aperto le sue operazioni di finanziamento anche a residenti negli USA. In Italia i “non bancabili” sono stimati in otto milioni, ma nessuna delle lodevoli iniziative di microcredito di banche, governi locali  e associazioni si è ancora posta l’obiettivo di sfruttare l’effetto aggregatore e moltiplicatore del crowdfunding via web.

Carlo Vitali
www.smartika.it
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