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Imprese che resistono alla crisi economica

La crisi economica colpisce quasi tutti, ma loro in particolare. Così le piccole imprese italiane hanno costituito un loro “movimento”: ImpreseCheResistono. Ecco le loro proposte

di Marco Delugan 19 gen 2012 ore 09:19
Movimento di piccole e medie imprese che vogliono resistere alla crisi. Le loro proposte riguardano tasse, tempi e certezza dei pagamenti, rapporto con le banche, ammortizzatori sociali. Con Laura Costato, referente per la Lombardia, abbiamo parlato degli interventi che ImpreseCheResistono ritiene più urgenti.

Cos’è ImpreseCheResistono?


«E’ un movimento spontaneo. Ci sono coordinatori regionali e si è costituito un comitato nazionale, ma giusto perché bisognava darsi un minimo di struttura. E’ un gruppo ancora molto informale. Non ci sono tesseramenti veri e propri ma solo un’adesione per iscritto. L’80% delle imprese aderenti sono aziende con meno di 10 dipendenti. Adesso siamo su tutto il territorio italiano, c’è un rappresentante per ogni regione. La forza maggiore è in Piemonte, ma anche in Lombardia sono molte imprese che hanno aderito. Il movimento è nato nel 2009 da un’idea di Luca Peotta che adesso è coordinatore nazionale».

Quali sono per lei le cause della crisi che molte piccole imprese stanno vivendo?

«Questa crisi è sempre stata minimizzata, ma chi era più addentro alle questioni economiche l’ha vista arrivare già parecchi anni fa. I primi segnali li si poteva vedere già nei primi anni del nuovo secolo. E’ cominciata perché la globalizzazione dell’economia, che poteva fare la fortuna di tanti paesi, è stata gestita in modo che la facesse solo per pochi. In Italia, ad esempio, non c’è stata nessuna protezione per i distretti industriali e per la manifattura, è stata permessa una deregulation totale ai paesi emergenti mentre chi lavora in Italia deve soggiacere a centinaia di cavilli e di regolamentazioni - leggi sulla sicurezza, sul marchio, sull’origine del prodotto - quando poi in Italia arriva di tutto e viene venduto di tutto».

Globalizzazione che ha avvantaggiato solo chi aveva la forza per farlo. Chi, in particolare?
 
«La globalizzazione ha avvantaggiato soprattutto le grandi aziende che hanno delocalizzato portando le produzioni nei paesi dove il costo del lavoro era a livelli bassissimi e potendo poi importare in Italia - dove non ci sono dazi, e non esiste nessun tipo di protezionismo - prodotti di minor qualità al medesimo prezzo. Tutto questo mentre l’indotto italiano di quelle grandi imprese è stato esposto ad una concorrenza che dire sleale è poco. Così molte piccole imprese hanno chiuso o sono fallite, e molte altre sono oggi a rischio di fallimaneto. Perché, paradossalmente, non possono chiudere, ma solo fallire. Per molte, infatti, le posizioni debitorie sono diventate così pesanti da non poter essere onorate, e chiudendo lo si dovrebbe fare, così resta solo la via del fallimento. E subire la globalizzazione in questo modo ha messo e mette ancora a rischio un gran numero di posti di lavoro. Tantissime piccole aziende che c’erano sul territorio e che hanno cessato l’attività hanno lasciato a casa migliaia di lavoratori e tutto questo è passato sotto silenzio perché il governo precedente ha sempre solo parlato di quello che poteva essere il problema Alitalia o Fiat, questioni che fanno molto più notizia».

Come ci si potrebbe difendere da questa crisi?

«O si permette a tutti di operare e produrre allo stesso modo e senza regole così che tutte le aziende possano abbassare i costi, cosa che secondo me sarebbe controproducente, oppure bisogna cercare di imporre delle regole e farle rispettare su tutto il territorio, nel senso che prodotti che non rispettano determinati standard qualitativi in Italia non dovrebbero essere venduti e non dovrebbero nemmeno venir prodotti».

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Equitalia sembra diventata un problema per le imprese italiane

«Tra le cose più urgenti da fare, secondo noi, c’è appunto il blocco dell’esecutività di Equitalia, perché sta massacrando tutti, dal pensionato in poi, e spesso a fronte di cose che non possono essere chiamate evasione fiscale, ma di aziende che fanno la loro dichiarazione corretta ma poi non hanno la liquidità per far fronte alle tasse. Chiediamo che Equitalia cominci ad agire con un po’ di criterio. Se siamo in una economia post-bellica, come molti dicono, e quindi ci sono delle situazioni particolari, che si faccia carico di capire le condizioni vere in cui si trova ad operare l’azienda, perché non si può andare da un imprenditore ad espropriare azienda, macchinari, casa. Anche perché, senza macchinari, l’azienda fallisce».

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Perché non ci sono i soldi per pagare le tasse?

«Tutto nasce da un malcostume italiano molto diffuso, quello dei non pagamenti. Al primo momento di crisi, tutti i grandi gruppi bloccano i pagamenti a data da destinarsi, e ci sono 70 miliardi di euro di fatture non pagate dallo Stato italiano. Così si genera un giro di insoluti che porta l’azienda che ha lavorato a non avere poi la liquidità per poter pagare dipendenti, fornitori, iva, contributi, tasse e tutto il resto. Nel 2008 l’Unione europea aveva proposto lo “Small Business Act” in cui erano state dettate le linee guida per il sostegno delle piccole aziende, mai però veramente recepito in Italia. Lo Small Business Act prevedeva che la regolamentazione dei pagamenti e delle transazioni avvenisse nei tempi massimi della media europea: in Francia si paga a 30 giorni, in Germania massimo a 60, in Svizzera a 15, mentre noi andiamo a 180 giorni quando va bene».

Si sente parlare spesso di iva per cassa, ci vuole spiegare di cosa si tratta?

«Iva per cassa vuol dire che pago l’iva sulle fatture pagate, su quello che ho incassato realmente. Pagare l’iva a 15 giorni dall’emissione di una fattura che verrà incassata a 160 o anche 180 giorni crea uno squilibrio finanziario importante, e quando un credito non viene pagato l’iva non viene rimborsata. L’iva per cassa finirebbe col velocizzare anche i pagamenti. L’azienda che non paga non può infatti scaricare il costo e non detrae l’iva finché non ha saldato la fattura, e quindi viene incentivata a saldarla».

Non avendo soldi in cassa bisogna andare dalla banca a farsi prestare i soldi

«Prima li prestava, adesso non li presta nemmeno più. La banca non ha nessun interesse nell’accollarsi il rischio del finanziamento di una azienda. Nel 2009 ero andata in una banca e mi hanno detto che un mutuo ad un dipendente lo facevano, ma non ad un imprenditore».

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Spesso le imprese si lamentano dell’Irap, che sarebbe una tassa particolarmente ingiusta

«Se si vuole rilanciare la crescita economica dell’Italia una delle cose da togliere è proprio l’Irap. Perché in nessun paese europeo un’azienda paga quando è in perdita. E’ infatti un’imposta sul fatturato e non sull’utile: dalla base imponibile non viene tolto il costo del lavoro e il costo degli interessi passivi, quelli che sono i costi principali di una azienda».

Secondo molti osservatori una delle strade per la ripresa economica è l’innovazione di processo e di prodotto. Lei cosa ne pensa?

«Quando un imprenditore dice che deve garantire la continuità aziendale, pensa a produrre degli utili che gli consentano di ampliare le riserve, di patrimonializzarsi, di dedicare parte degli utili all’innovazione, alla ricerca e allo sviluppo per mantenersi sul mercato. Però se uno oggi riesce ancora a produrre un utile, quell’utile gli viene mangiato dalle tasse, per cui non si arriva ad avere la disponibilità finanziaria che permette all’azienda di crescere e di svilupparsi. Si parla di innovazione come panacea per tutti i mali dell’economia, ma io che ho una officina meccanica, se dovessi prendere una macchina tecnologicamente molto avanzata poi non avrei chi metterci a lavorare, perché le scuole tecniche non sanno più insegnare, e di operai di alto livello non se ne trovano. Per innovare, il background di una azienda deve essere formato prima, e oggi non si riesce più a farlo».

Per un altro punto di vista sulla crisi leggi: Crescita economica Italia, tre leve per ricominciare

Marco Delugan

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