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Troppe poche nascite il vero nodo della sostenibilità del debito italiano

Il Financial Times vede nell’immigrazione l’unica via di uscita, ma dubita che il Belpaese riesca a cogliervi l’opportunità di suddividere meglio pro quota lo sforzo del risanamento

di Carlo Sala 8 mag 2013 ore 10:18
Un debito pubblico al 127% e avviato al 130% e un tasso di natalità di 1,4 figli per donna (censito dall’Istat nel 2011) fanno sì che il debito pubblico italiano sia pericolosamente troppo alto, soprattutto calcolato pro-capite, per essere sostenuto dal Paese e dalla sua popolazione e fanno di conseguenza dell’immigrazione un’ancora di salvezza dell’Italia stessa. A dirlo non è l’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio (seriamente interessato alle ricadute economiche dei trend demografici) né il neoministro dell’Integrazione Cécile Kyenge. Lo sostiene, invece, un’analisi del Financial Times.

Applicando una sorta di teorema di Malthus alla rovescia – non è la popolazione che cresce troppo rapidamente rispetto alle risorse alimentari, ma viceversa è la popolazione che decresce sensibilmente rispetto all’esposizione debitoria del Paese – la testata britannica osserva che i decessi in Italia sono andati aumentando fino a superare ampiamente le nascite: tra le 10 nazioni più popolose negli anni Cinquanta, quando vantava una popolazione doppia rispetto al Vietnam o all’Egitto e molto maggiore del Pakistan, l’Italia non ha colto l’occasione che il baby boom di metà Novecento le offriva di risanare i propri conti nel momento in cui – fine anni Ottanta e anni Novanta - gli stessi baby boomers raggiungevano l’apice della parabola di produttività (e quindi di reddito) della propria vita.

Il peso del debito pubblico rispetto al Pil ha registrato un lieve miglioramento tra il ’96 – quando il governo Prodi fu trascinato dalla Spagna di Aznar a entrare subito nell’euro superando le forche caudine dei criteri di Maastricht – e il 2007-08, ma la crisi finanziaria che ha portato la disoccupazione intorno all’11% generale e al 38% se si considera la sola forza lavoro giovanile pone l’uscita dalla crisi stessa sulle spalle di persone ormai avviate lungo la parabola discendente della propria vita. “Aspettarsi che il Paese paghi i propri debiti come ha fatto nei decenni scorsi è come aspettarsi che un 85enne beva come quando faceva l'università” osserva con crudezza il Financial Times.

Che la scialuppa di salvataggio possa essere – neanche troppo metaforicamente – quella che arriva a Lampedusa è testimoniato nuovamente dai dati Istat. Al netto degli stranieri naturalizzati italiani, gli immigrati sono triplicati dal 2001 al 2011 (date dei censimenti Istat sulla popolazione della penisola): passati da 1,3 a 4 milioni, sono andati aumentando di un milione di unità ogni 3-4 anni. Meno istruiti degli italiani, meno “remunerativi” perché spediscono parte dei loro introiti nel Paese d’origine, inizialmente almeno addirittura costosi perché vanno integrati (e quindi va anzitutto insegnata loro la lingua), in un’ottica razionale – secondo il Ft – dovrebbero suscitare meno riserve tra gli italiani “doc” di quanti hanno cumulato quel debito che ora gli italiani tutti sono chiamati a ripianare, spesso senza neanche aver partecipato al clima di spensieratezza in cui quel debito è maturato.

Un risanamento che visto dalle rive del Tamigi appare iniziato soltanto 18 mesi fa – col governo Monti – induce tuttavia a pensare che gli italiani autoctoni non abbiano ancora l’elasticità – giudicata pressoché ovvia in un americano o in un australiano – per vedere in massicci flussi migratori se non un arricchimento culturale almeno uno sgravio, pro quota, del carico fiscale.

Carlo Sala

 
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