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Pop economy: corre sul web la rivoluzione dell’economia

Rinunciare al possesso esclusivo e individuale di un bene, utilizzarlo quando serve, dopodiché rimetterlo a disposizione di chiunque altro ne abbia bisogno. Questo il principio di base della pop economy.

di Andrea Di Turi 10 giu 2011 ore 11:58

Tu chiamala, se vuoi, Pop Economy. È la nuova buzzword che circola anzi spopola sulla Rete da qualche tempo. E che sta scardinando, in silenzio, come la goccia che scivolando scava la roccia, l’economia del consumo, del possesso, della crescita infinita come unica strada per l’evoluzione della specie. Indicando, invece, la strada per un’altra economia possibile. Che in buona parte ruota intorno alle potenzialità aggregative di internet e dei social media e che tiene insieme la filosofia del downshifting, le teorie sulla decrescita felice di Serge Latouche, l’ambientalismo e i principi dello sviluppo sostenibile, riuscendo a dare una risposta alle difficoltà e alla necessità di risparmiare che la crisi ha acuito a livello globale.

Dalla competizione alla partecipazione
Si tratta, in sostanza, di economia partecipativa o del mutuo soccorso. Così la spiega chi ha coniato questo nuovo termine, vale a dire Loretta Napoleoni, la ben nota economista che spesso appare anche in importanti talk show televisivi (fra i suoi titoli più recenti citiamo Economia canaglia. Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale, oppure La morsa. Le vere ragioni della crisi mondiale) e che da anni mostra i difetti del turbo-capitalismo neoliberista centrato sullo strapotere della finanza, cioè tutti quegli aspetti e dinamiche economico-finanziarie che spesso non si riescono a vedere ma che decidono di crisi, fortune, disastri, speculazioni. E determinano la vita di ciascuno.

Napoleoni ha iniziato a parlare di pop economy in un articolo pubblicato dalla rivista Wired ormai diventato celebre, anzi quasi un cult (lo si può trovare ripreso anche su Facebook, su Scribd, ma soprattutto sul sito della pop economy). Dove ha spiegato perché ritiene che sia questa la vera grande rivoluzione economica, ma anche sociale, dei nostri tempi.

Un modello che nasce dal basso
La pop economy nasce dal basso e si propaga viralmente attraverso il web. Nasce da tutti coloro, soprattutto i cosiddetti nativi digitali, cioè i giovani che sono nati quando internet aveva già iniziato a rivoluzionare il nostro modo di vivere, che con la crisi scoppiata col default di Lehman Brothers hanno avuto la prova provata del fallimento del modello basato sulla razionalità economica, sull’individualismo del consumo e del possesso, sulla competizione sfrenata guidata da stimoli unicamente economici. Da tutti quelli, cioè, che coi loro comportamenti hanno cominciato a costruire un’altra economia possibile.


Cresce, insomma, una generazione di persone che quando ha un bisogno, un problema, per prima cosa va online a vedere se c’è qualcuno che si trova in una situazione simile, vi entra in contatto, stabilisce un legame e una modalità per affrontare insieme il problema. E risolverlo, generalmente in modo migliore, più semplice e geniale di come si sarebbe potuto fare da soli. Per giunta senza spendere soldi o spendendone il meno possibile, dato che scarseggiano a causa di lavori sempre più precarizzati e sotto-pagati.

C’è anche una forte componente ambientale, in tutto ciò, una consapevolezza che la sostenibilità dello sviluppo non è più una semplice opzione ma una necessità. E che quindi prima di buttare qualcosa che potrebbe servire ancora, magari non a noi ma a qualcun altro, si cerca di riutilizzare, riciclare, rigenerare. Per non appesantire il pianeta a causa di consumi scriteriati, frenetici, dettati spesso da fattori più psicologici che di necessità.

Esempi di pop economy
Da schiavi del possesso a padroni dello scambio e del baratto. Da vittime del marketing del bisogno indotto a persone consapevoli dei loro bisogni reali. Da discepoli della competizione sfrenata mossa dall’avidità di guadagno a profeti della condivisione e del riutilizzo. Contro il modello del possesso esclusivo del bene e a favore del modello della fruizione partecipata del servizio solo quando serve.

Espressioni, queste, che ricorrono quando si parla di pop economy. Ma come si traducono in concreto?

Pensiamo al bike sharing e al car sharing, che si stanno diffondendo in un numero crescente di città in tutto il mondo: l’idea è quella di rinunciare al possesso esclusivo e individuale di un bene, la bici o l’auto in questo caso, ma di prenderlo a noleggio per utilizzarlo solo quando serve, dopodiché lo si rimette a disposizione di chiunque altro ne abbia bisogno.

Un risparmio, ovviamente, in termini economici. Ma soprattutto un cambiamento culturale, perché bisogna mettere in conto che il bene magari non è sempre disponibile e che comunque non lo si userà da soli ma con altri. E uno stimolo, anche, a interpretare le nostre azioni nel senso della collaborazione, non più dell’invidualismo che spesso sconfina nell’egoismo cieco che isola, atomizza la società e non invita a costruire relazioni o reti sociali. Stessa filosofia promossa ad esempio dai G.a.s., i gruppi di acquisto solidale, che nascono per disintermediare negozi e supermercati troppo costosi andando a caccia di prodotti sani e di qualità, accettando di non avere sempre a disposizione qualsiasi genere alimentare ma solo quelli di stagione e acquistati in momenti prestabiliti, e che spesso finiscono per essere un laboratorio di relazioni sociali di prossimità.


C’è chi va anche oltre e parla apertamente di baratto, di scambio, invece di rapporto venditore-acquirente. Perché l’idea di fondo è quella di uscire dal ruolo di consumatore passivo, l’unico che il modello socio-economico dominante ci ha ritagliato addosso, e di riacquistare consapevolezza delle proprie potenzialità di individui che possono creare relazioni di ogni genere, di natura anche economica ma non solo. Al di fuori, quindi, delle logiche del mercato e della concorrenza, che stanno strangolando la dignità del lavoro e i suoi diritti e il suo equo e giusto compenso col metodo della delocalizzazione selvaggia, della competizione globalizzata senza regole né limiti fra territori, comunità, persone. Per dimostrare che si può uscire dalla sindrome di T.i.n.a. (“There Is No Alternative”, cioè nessuna alternativa è possibile al modello capitalistico neoliberista finanziarizzato) e se ne può uscire migliori.

Un esempio sono le virtual community dove ci si scambia qualsiasi cosa, tra pari, senza passare per le transazioni intercettate dal Pil. Una di queste è Swaptree, conosciuta a livello globale. Ma ci sono esempi anche in Italia, come Zerorelativo, il primo portale italiano per barattare online, dove ci si iscrive e si propone quello che si ha da barattare (musica, film, informatica e cellulari, arredamento, vestiti, giochi, collezionismo, articoli sportivi, per la casa, cosmetici) e si cerca uno scambio con gli altri. Dove, insomma, “il tuo oggetto è la tua moneta”, come recita lo slogan del sito. Come è anche nella filosofia delle banche del tempo, dove qualsiasi prestazione può essere scambiata con qualsiasi altra, basta che sia nell’interesse di entrambe le parti, ma senza che passi denaro in alcun modo.

Altri esempi vengono dal file sharing di musica e film, con casi come quello di Netflix, e dai software open source che hanno scardinato la dittatura del copyright. Ma la pop economy prevede che ci si possano scambiare anche divani per una notte per chi può viaggiare solo low cost, abiti e accessori per matrimoni e cerimonie, aree di giardini per realizzare orti da coltivare, attrezzi per il fai-da-te in casa e via discorrendo.

Fiducia nell’auto-regolamentazione della comunità, lo dice un premio Nobel
Forse il segreto di questa pop economy sta proprio nella fiducia, nella riscoperta del valore della solidarietà, delle relazioni sociali, dell’altro non visto come un nemico o un avversario da battere ma come una persona con cui scambiare quello che reciprocamente manca. Partecipando l’uno alla vita dell’altro. Del resto sul sito della pop economy si legge “United we stand, divided we fall” (uniti stiamo in piedi, divisi cadiamo), che più che a uno slogan assomiglia a una regola di vita, con un’accezione quasi spirituale che però non fa ombra alla natura pragmatica.

Se servisse un supporto teorico, di cui per la verità non si sente un eccessivo bisogno, ci si può rifare (scusate se è poco) alle teorie sull’auto-organizzazione e auto-regolazione delle comunità con cui Elinor Olstrom ha vinto nel 2009 il premio Nobel per l’economia. Per chi cercasse, invece, un testo di riferimento, si possono sfogliare le pagine del libro di Rachel Botsman, guru del consumo partecipativo, che insieme a Roo Rogers ha scritto What’s Mine is Yours, considerata in qualche modo un testo-manifesto della pop economy. Ma per carità, non pensate di comprarlo: sicuramente potrete riuscire ad averlo fra le mani senza spendere un euro se praticate il book crossing, oppure se andata su internet a cercare qualcuno che voglia prestarvelo. Sempre che abbiate qualcosa da barattare.

Andrea Di Turi

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