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Quanto valgono le “emissioni” in Borsa

Cambiamento climatico e imprese quotate. Perché l’impatto sul clima è ormai una delle variabili chiave per valutare l’affidabilità e la profittabilità di un modello di business

di Andrea Di Turi 20 nov 2012 ore 11:59
Dimmi quanto emetti e ti dirò chi sei. E, soprattutto, se investirò nella tua società. Il nuovo rapporto del CDP-Carbon Disclosure Project per l’Italia, appena presentato a Milano in Borsa Italiana, ha fatto il punto su come e quanto le maggiori società quotate a Piazza Affari stanno affrontando l’emergenza del climate change. Sul perché non dovrebbero esserci più incertezze, dato che ormai sono soprattutto i grandi investitori internazionali a essere consapevoli che l’impatto dei cambiamenti climatici è una variabile chiave da considerare per valutare l’affidabilità e la profittabilità di un modello di business, soprattutto nel lungo periodo. E quindi il potenziale ritorno di un investimento.

Chi è CDP - CDP-Carbon Disclosure Project è un’organizzazione internazionale non profit che da molti anni si è ormai imposta come l’organizzazione leader a livello mondiale nella misurazione e pubblicazione di informazioni ambientali legate al mondo del business. In particolare, come dice il suo nome, per quanto riguarda le emissioni di carbonio e di gas a effetto serra. Strettissimo il legame con la finanza, dato che è proprio da centinaia di investitori internazionali, a oggi 655 (insieme gestiscono asset per 78mila miliardi di dollari, sì non è un errore, proprio 78.000 miliardi), che CDP è promossa e sostenuta. Attualmente, dunque, quella di CDP è la più grande banca dati mondiale sul tema dei cambiamenti climatici, ma anche su quello dell’acqua, considerati in una prospettiva di business e di investimento finanziario. (Leggi anche: Gli indici “al carbonio” di Ftse)

Le aziende rispondono. Ma non troppo - Il report per l’Italia s’intitola CDP Italy 100 Climate Change Report 2012, curato da CDP insieme ad Accenture. Ma quel “100” si può interpretare soprattutto come una speranza: solo 46 delle 100 maggiori aziende italiane per capitalizzazione di Borsa, infatti, hanno risposto all’invito di CDP di fare disclosure sulle proprie strategie e iniziative di contrasto al climate change, in primis sul proprio livello di emissioni di gas serra. La maggioranza delle aziende non ha risposto.

In ogni caso c’è stato un aumento rispetto alla scorso anno, quando a rispondere furono 35 aziende (nel 2010 furono 21). Ciò fa ben sperare che l’Italia in futuro prosegua il suo cammino di avvicinamento per raggiungere il rapporto di 76 aziende su 100 (in termini di risposte al questionario CDP) delle aziende Global 500, le più grandi a livello mondiale.

La classifica italiana - Insieme a IMQ, che ha effettuato le valutazioni quest’anno, CDP ha elaborato due classifiche per l’Italia. La prima, CDLI (Carbon Disclosure Leadership Index), tiene conto del livello di disclosure cioè di trasparenza con cui le aziende informano sul loro livello di emissioni di gas a effetto serra. La seconda, CPLI (Carbon Performance Leadership Index), valuta il livello di azione che le aziende mettono in campo per contrastare il climate change e ridurre le emissioni. Entrambe queste dimensioni sono importanti perché insieme definiscono il grado di attrattività di una società quotata per gli investitori. Specialmente per gli investitori socialmente responsabili o Sri, che cioè hanno iniziato a considerare anche fattori Esg (environmental, social and governance) nella valutazione degli investimenti. (Leggi anche: Quando la finanza etica diventò Esg)

Per quest’anno, la classifica CDLI italiana (Top10) ha dato questi risultati:

Azienda Punteggio
Fiat 95
STMicroelectronics 92
Enel 92
Eni 91
Fiat Industrial 91
Intesa Sanpaolo 91
Buzzi Unicem 90
Pirelli 89
A2a 88
Italcementi 86


Le società italiane, invece, inserite nel CDPI sono state:

1) Fiat
2) Eni
3) Intesa Sanpaolo.

In generale, le aziende italiane comprese nella Top10 della classifica CDLI hanno ottenuto un miglioramento di sette punti rispetto al 2011. Sono anche aumentate le società “high scorer”, cioè quelle che in base alla valutazione secondo i criteri di CDP hanno ottenuto un punteggio superiore a 70 punti: dalle 13 del 2011 alle 20 del 2012. E sono anche cresciuti i settori economici rappresentati nella Top10: dai cinque dello scorso anno si è passati ai sette di quest’anno. Significa che l’attenzione ai cambiamenti climatici si sta diffondendo trasversalmente nel tessuto economico-produttivo, al di là dei settori che tradizionalmente (ad esempio le utilities o le società del settore energia) hanno più abitudine a confrontarsi con la questione delle emissioni climalteranti.

I trend al “carbonio” - L’analisi di CDP ha messo anche in evidenza alcuni interessanti aspetti che danno l’idea di come, nelle aziende italiane di maggiori dimensioni, il tema del climate change viene affrontato e gestito.

Il dato principale è che il board è sempre più coinvolto. La gestione dell’impatto del climate change sul business, infatti, è sempre più un tema che trova posto a livello di consiglio d’amministrazione: in un anno, la percentuale delle aziende che affidano le decisioni in materia al board o al management di più alto livello è salita dal 61% al 95%. Inoltre, più della metà delle imprese (58%) ha fissato obiettivi di riduzione delle emissioni. Tuttavia solamente 5 aziende, fra quelle che hanno risposto, hanno fissato obiettivi di lungo termine (vale a dire al 2020, data fatidica per le strategie ambientali a livello europeo) in fatto di riduzione delle emissioni e di lotta al climate change. (Leggi anche: Il clima. La finanza. Che c’azzecca?)

Alla ricerca del longtermismo - L’analisi di CDP ha mostrato soprattutto come, sebbene la sensibilità delle aziende stia progressivamente aumentando, sia ancora poco presente un atteggiamento ispirato al longtermismo. Più spesso, cioè, le aziende si attivano in relazione alle problematiche del climate change in un’ottica di risultato più che altro di breve periodo: sembrano un po’ malate, insomma, dello shortermismo classico che ha caratterizzato in particolare i mercati finanziari negli ultimi anni (e che è stato una delle cause della crisi epocale in cui siamo precipitati). Per inquadrare e gestire al meglio gli effetti di un fenomeno come quello dei cambiamenti climatici, sarebbe opportuno invece sviluppare uno sguardo di lungo periodo, capace di andare al di là dei risultati di breve. Uno sguardo, insomma, più capace di futuro.

In questo senso potrebbe essere molto utile un’evoluzione dell’organizzazione aziendale che prevedesse con sempre maggiore frequenza, e organicamente, specifiche figure dedicate in azienda al presidio di questi temi. Sul job title di queste figure non c’è ancora piena condivisione, si va dal csr manager al sustainability manager al climate change manager. Ci dovrebbe essere però condivisione almeno sul fatto che disporre in azienda di antenne sempre attive su questi argomenti è sempre più importante. Per non  dire vitale. (Vedi anche: CDP: A Global Leader Perspective)

Andrea Di Turi
@andytuit
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