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Finanza etica, competitiva sui rendimenti

di Andrea Di Turi 15 mar 2011 ore 10:29

L’accostamento tra i due termini, finanza ed etica, ancora oggi viene spesso accolto con scetticismo. Eppure è ormai qualche decennio che la finanza etica o socialmente responsabile (Sri), detta anche sostenibile, ha mostrato sul campo di poter costituire uno stile d’investimento con pari dignità rispetto ad altri. Ma, soprattutto, di poter competere senza problemi sul piano dei rendimenti. Riservando, anzi, qualche sorpresa.

La maggior parte delle persone ritiene che finanza ed etica non possano andare insieme e che se si vuole investire sui mercati finanziari tenendo fermi determinati principi e valori si finisce col guadagnare meno. Un pensiero che pare la riedizione del motto latino “pecunia non olet”. Evolutasi nel corso dei decenni, tanto che oggi viene più abitualmente indicata con termini come Socially responsible investment (Sri), finanza sostenibile o Esg (Environmental, social and governance), la finanza etica ha ormai uno storico di dati e informazioni, nonché di studi e ricerche specifiche condotte in materia, che la supportano. E che mostrano come scelte d’investimento basate su un’analisi delle performance non solo economico-finanziarie ma anche sociali, ambientali e di corporate governance di una società quotata, non comprometta in alcun modo la possibilità di ottenere rendimenti interessanti o quanto meno in linea con quelli di mercato. Al contrario: specie in un orizzonte di medio-lungo periodo, proprio per la natura delle sue analisi la finanza etica permette di investire in modo meno rischioso.

L’obiezione classica alla finanza etica

Spesso le motivazioni presentate da chi dubita che la finanza etica possa essere competitiva sui rendimenti sono di carattere pregiudiziale, cioè non si ammette la possibilità che si possano effettuare investimenti finanziari guardando a valori altri che non  siano quelli del rischio e del rendimento.

C’è però anche un’obiezione di scuola, teorica: si afferma che operando un filtro etico, sociale e ambientale all’investimento, inevitabilmente si riduce il cosiddetto universo della attività investibili, cioè si pongono delle restrizioni alle possibilità di investimento. Come conseguenza, si avrebbe una minore possibilità di diversificare l’investimento e quindi di distribuire il rischio dello stesso, che aumenterebbe. E si avrebbero minori opportunità di cogliere tutte le opportunità di guadagno, per cui il rendimento atteso dell’investimento anch’esso diminuirebbe.

…e la risposta

A parte i pregiudizi, per i quali non c’è risposta motivata che tenga, all’obiezione classica la finanza etica offre risposte altrettanto motivate. Infatti, un investimento che utilizza, oltre alle analisi classiche di rischio e rendimento delle attività investibili, anche analisi che tengono conto di altri parametri aggiuntivi, indicati appunto col termine Esg (Environmental, social and governance), ha maggiori probabilità di individuare fattori di rischio che le analisi tradizionali non hanno la capacità di intercettare. Insomma, è un investimento con basi più complete, a spettro più ampio, più motivato.


Per fare un esempio fra i tanti possibili, le analisi che tengono conto degli effetti dei cambiamenti climatici sul business di una società, e che vengono richieste in modo crescente dai grandi investitori internazionali, stanno diventando fondamentali per valutare la capacità di un business di continuare ad essere profittevole nel lungo periodo. Oppure ancora, per collegarsi all’attualità più drammatica (terremoto e tsunami in Giappone), gli investimenti socialmente responsabili hanno quasi sempre teso ad escludere, per più di un motivo, le società coinvolte nel business del nucleare.

Il fatto è che, sempre restando in un’ottica diciamo accademica, la finanza che investe guardano all’ambiente, al sociale e alla qualità della governance, non fa altro che internalizzare quelle che gli economisti definiscono le esternalità negative, che prima o poi inevitabilmente ricadono su chi le ha prodotte: qualsiasi impresa, cioè, non può ragionevolmente immaginare di continuare sine die a fondare la sua profittabilità sul fatto, ad esempio, che continua a scaricare sull’ambiente i costi dell’inquinamento che produce, o sul fatto che continua a delocalizzare le sue produzioni in Paesi, spesso non democratici, dove leggi arretrate (talora del tutto inesistenti) sul lavoro e sulla rappresentanza sindacale le permettono di sfruttare questo gap a suo favore, perché prima o poi il gap è destinato a svanire. Prima o poi, insomma, l’impresa dovrà assumersene le responsabilità, pagandone il conto e rendendone conto ai suoi investitori, per cui prima lo fa e meglio è. E gli investitori, questo, lo sanno bene.

Non è un caso che in diversi Paesi europei e non, ultima in ordine di tempo la Spagna, ma anche la stessa Ue ci sta pensando, alle società quotate sia richiesto di pubblicare obbligatoriamente bilanci sociali o di sostenibilità dove offrire appunto informazioni non solo economico-finanziarie ma anche sociali e ambientali sulla propria attività. Perché sono proprio queste valutazioni che permettono di comprendere meglio la sostenibilità che ha in prospettiva un’attività economica, cioè la probabilità che da qui a un numero “n” di anni quell’impresa sia ancora sul mercato, che faccia profitti, che il suo titolo salga e che distribuisca dividendi.

Non è un caso, inoltre, che provider di informazioni finanziarie come Bloomberg o Reuters abbiano già da qualche tempo iniziato a fornire informazioni legate a parametri e indicatori Esg.

Non è un caso, infine, che un documento di un paio d’anni fa pubblicato da Unep (il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, che ha un gruppo di lavoro, Unep Fi-Financial Initiative, dedicato alla sostenibilità degli investimenti) abbia sottolineato come per i gestori di grandi investitori istituzionali, i fondi pensione in primis, il fatto di integrare fattori Esg nella loro attività d’investimento abbia direttamente a che fare con il rapporto fiduciario che sta alla base del mandato che ricevono: l’integrazione di criteri Esg, insomma, starebbe alla base dei doveri del buon gestore.

L’evidenza empirica: la finanza etica non penalizza i rendimenti. Anzi

Sulla confrontabilità dal punto di vista dei rendimenti tra finanza etica e finanza tradizionale sono state ormai effettuate una larghissima quantità di indagini, studi e ricerche.

Una buona parte di esse concorda sul fatto che l’applicazione di un filtro etico alla selezione degli investimenti non pregiudica la possibilità di ottenere dei rendimenti interessanti. Ma c’è una parte di studi che va oltre e dice che, in un’ottica di medio-lungo periodo, l’applicazione di questo filtro Esg non solo non è penalizzante, ma permette di ottenere rendimenti anche superiori ad un investimento tradizionale per via appunto della possibilità che offre di meglio individuare sia i rischi, specie quelli di default o alla Bp, per intendersi, sia le opportunità di un business.


Se si mettono a confronto le performance dei principali indici etici internazionali, come Dow Jones Sustainability Index o Ftse4Good, con i loro indici benchmark tradizionali, si può vedere come siano assolutamente confrontabili e spesso, nel medio-lungo periodo, quelle degli indici etici siano anche superiori. Il nuovo indice etico italiano Ftse Ecpi Italia Sri, lanciato ad ottobre 2010, ha dimostrato con il back-test (il test che va a vedere quali sarebbero state le performance dell’indice negli anni precedenti al lancio) che avrebbe spesso potuto ottenere performance migliori e meno volatili del suo indice benchmark tradizionale.

Anche in casi particolari, e storicamente assai significativi nonché drammatici per le Borse, come il giorno del fallimento di Lehman Brothers, gli indici etici hanno dimostrato di poter offrire una performance superiore in quanto le loro selezioni integrano fattori che gli indici tradizionali non possono cogliere.

Ma le conferme vengono anche dal rendimento dei fondi comuni e dalla loro crescita in termini di numeri e asset, che con ogni evidenza sarebbe difficilmente spiegabile se fossero fondi che non riescono a garantire buone performance.

In Italia, in più di un’occasione è accaduto che fondi etici sono stati premiati fra i migliori della propria categoria quanto ai rendimenti. Una recente ricerca di Morningstar (“Analisi quantitativa e qualitativa dei fondi SRI disponibili alla vendita in Italia”), che ha analizzato circa 200 fondi Sri, ha rivelato che questi fondi riescono a offrire buone performance soprattutto nelle fasi negative di mercato. In Europa, la finanza Sri in termini di asset gestiti è praticamente raddoppiata negli anni più difficile della crisi. L’ultimo report sul mercato dei fondi Sri negli Usa ha detto che dal 2005 il tasso di crescita degli investimenti Sri è stato del 34%, quello del risparmio gestito in generale del 3% (un ordine di dieci volte inferiore!), e che dal 2007 al 2010 mentre il risparmio gestito in generale è sceso (in asset) dell’1%, quello gestito con criteri Sri è salito del 13%.

Il “doppio” rendimento della finanza etica

Ma anche se finanza etica risultasse solo equivalente, per rischi e rendimento connessi, a quella tradizionale, resta però un fatto: a parità di rendimento, la finanza etica offre un secondo tipo di rendimento, che è dato dal valore sociale e ambientale della sua attività. Lo stesso rendimento, infatti, viene ottenuto badando che vi siano performance positive anche sul versante sociale e ambientale. Il che significa che vi è un rendimento aggiuntivo, certo non economico, che scaturisce da un investimento responsabile. È un rendimento collettivo, non individuale, di cui beneficia la collettività nel suo insieme.

Certo, è un altro modo di intendere il mondo rispetto a chi pensa che si possa proseguire a privatizzare i guadagni e a scaricare le perdite sulla collettività, in particolare sulle generazioni future. È un altro modo possibile di intendere la finanza.


Per approfondimenti:

Finanza etica. Cioè?

I fondi etici o socialmente responsabili (Sri)

Rating etico, il cuore della finanza responsabile

Indici etici, il “benchmark” della finanza etica


Fondi pensione e finanza etica: affinità elettive

La Finanza Etica in otto passi


Andrea Di Turi
www.srivoluzione.it

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