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La decrescita felice secondo Serge Latouche

Secondo alcuni è l’unica strada disposizione dell’umanità per salvare il pianeta e sé stessa. Crescita e sviluppo non sono la stessa cosa.

di Andrea Di Turi 11 dic 2011 ore 21:00
Siamo immersi fin dalla nascita in un contesto ideologico che spinge continuamente verso la crescita come se fosse l’unico obiettivo possibile e desiderabile che possiamo porci. Perciò dobbiamo compiere un grande sforzo cognitivo per accettare che la decrescita possa essere un concetto con valenza positiva. Figuriamoci quanto è difficile accostarla al concetto di felicità. Eppure c’è chi teorizza da anni, ben prima della crisi, che la decrescita felice è l’unica strada a disposizione dell’umanità per salvare il pianeta e, quindi, sé stessa: Serge Latouche.

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Crescita e sviluppo pari non son - Intellettuale francese, economista e filosofo, Latouche è stato non il primo ma senz’altro uno dei più noti e assidui divulgatori delle teorie della decrescita.

Per comprendere quali sono i pilastri alla base delle teorie delle decrescita di Latouche occorre innanzitutto riconoscere la distinzione tra crescita e sviluppo, spesso utilizzati come sinonimi.

La crescita ha a che fare con una dimensione quantitativa, misurabile e quasi sempre legata all’aspetto economico, per cui per crescita si intende quasi esclusivamente la crescita di una quantità economica misurabile, ad esempio il Pil.

Lo sviluppo, invece, attiene alla dimensione qualitativa
, cioè a ciò che permette di togliere i “viluppi” che impediscono un miglioramento qualitativo. Che non necessariamente si identifica con quello qualitativo.

Tale distinzione è stata ben chiarita da quello che in letteratura è conosciuto come il paradosso di Easterlin: al di là di una certa soglia, l’aumento del reddito per una persona umana non contribuisce più all’aumento, evidentemente qualitativo, della sua felicità. Può, anzi, addirittura ridurlo.

Per questo motivo Latouche considera contraddittorie espressioni come crescita sostenibile, o anche sviluppo sostenibile, dato che erroneamente i due termini sono utilizzati come sinonimi: una crescita infinita, dato un contesto (il pianeta) in cui le risorse sono finite, non può darsi. Dunque è illusorio e dannoso porla come obiettivo.

La qualità dello sviluppo nelle “otto R” - Qual è, allora, l’obiettivo da porsi? Non una crescita negativa, come molti detrattori delle teorie di Latouche affermano. Ma la decrescita, appunto, che Latouche ha esposto in numerosi volumi, come il celebre Breve trattato sulla decrescita serena (Bollati Boringhieri) o l’ultimo Come si esce dalla società dei consumi (Bollati Boringhieri): un concetto di sviluppo liberato da quello di crescita, qualitativo e non quantitativo, olistico e non schiacciato unicamente sulla dimensione quantitativa economicamente misurabile.

La decrescita si articola in un insieme di principi e strategie, a cui ispirare sia i comportamenti concreti individuali, e in particolare quelli di acquisto e di consumo, sia quelli collettivi e del sistema economico-produttivo nel suo complesso. Vengono di solito riassunti, in modo schematico ma ugualmente efficace, nelle cosiddette “otto R”: ridurre, riutilizzare, riciclare, che sono le più famose e immediatamente comprensibili; ma anche rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare.

Il significato delle “otto R” - Tradotte, queste “R” significano ad esempio contrastare la delocalizzazione guidata da considerazioni esclusivamente economiche legate al vantaggio competitivo (il costo inferiore dei fattori di produzione, in particolare del lavoro) e recuperare la dimensione locale della produzione (filiere locali o “corte”, finanziamenti alle imprese locali) e del consumo (consumo “a Km 0”, G.a.s.-Gruppi di acquisto solidale). Significano ripensare i processi e i prodotti limitando al massimo il consumo di materie prime, di energia, di suolo e territorio, insomma delle risorse naturali. E progettando beni che possano durare nel tempo, che non siano programmati per un’obsolescenza rapida a servizio del consumo, e il cui intero ciclo di vita, dalla progettazione allo smaltimento, al riciclo e riuso, sia pensato nell’ottica della sostenibilità. Significa recuperare l’esistente, valorizzando ciò che c’è e non idealizzando ciò che è nuovo solo perché è nuovo. Significa puntare su beni diversi, nuovi, cioè i beni relazionali, e non esclusivamente sui beni materiali. Significa ridare valore alla sobrietà e alla qualità nell’utilizzo dei beni, non al possesso e all’accumulo, rifiutando il concetto di consumo e recuperare, appunto, quello di utilizzo.

La vera sfida: un altro sviluppo è possibile
- Informando i comportamenti individuali e collettivi a questi principi, è possibile per Latouche uscire dalle maglie ormai troppo strette di un modello, quello della crescita indefinita, della produzione e del consumo condannati all’incremento continuo, che ha ormai mostrato oltre ogni ragionevole dubbio la sua drammatica in-sostenibilità. E che rischia di pregiudicare la sopravvivenza stessa del pianeta.

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Ma la vera grande battaglia su cui Latouche è impegnato è quella della costruzione di una conoscenza condivisa di un modello di società alternativo a quello attuale, portato alle estreme e nefaste conseguenze dal neoliberismo: una logica nuova, una visione nuova del mondo che consenta di uscire dalla schiavitù della crescita, di detronizzare la dimensione economica, di rifiutare il consumismo come affermazione di sé e di iniziare un cammino di autentico progresso. Alla ricerca della felicità.


Andrea Di Turi
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