Economia dei beni comuni: un nuovo modello di sviluppo
Un modello di sviluppo che mette al primo posto la difesa dei beni comuni, l’acqua, la coesione sociale, la solidarietà e la sussidiarietà. Alla ricerca di una nuova economia.
di Andrea Di Turi 26 mar 2012 ore 11:11Leggi anche: La decrescita felice secondo Serge Latouche
Dai beni comuni al benecomunismo
Da un po’ di tempo, però, a indicare questo modo di intendere il modello di sviluppo economico, e alla fine d’intendere il senso della vita, è arrivata un’altra espressione probabilmente ancora più efficace. Si parla di economia benecomunista, perché mette al primo posto la cura dei beni comuni: l’acqua, bene comune per eccellenza, ma anche la coesione sociale, la solidarietà e la sussidiarietà, l’istruzione e la cultura, la salute, la bellezza (ad esempio del paesaggio), la pace.
Non solo: è un’economia in cui non c’è unicamente il mercato a decidere, ma anche la partecipazione dei cittadini attraverso il dialogo e il confronto, per cui si tratta di un’economia partecipata che esalta la democrazia, la condivisione e la cooperazione e non assolutizza la competizione (tra persone, sistemi economici, Stati, aree geografiche).
E ancora: è un’economia che misura il suo successo in base a quanto riesce a tutelare e possibilmente a incrementare i beni comuni di cui tutti possono/debbono fruire. Molte le assonanze, dunque, con la teoria della decrescita e con i fautori del downshifting.
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Il benecomunismo in versione austriaca
In Austria c’è uno degli esempi forse più avanzati al mondo di economia benecomunista. O almeno un tentativo di realizzarla.
Nel 2010 un gruppo di imprenditori ha deciso che di fronte alla crisi economica, sociale e ambientale in atto, un’altra strada era possibile. E ha deciso di sperimentarla. Questo gruppo di imprenditori veniva dall’esperienza dell’associazione Attac, nata per chiedere l’introduzione di una tassazione sulle transazioni finanziarie, la celebre Tobin tax (tutto si tiene, insomma).
Un certo numero di imprese ha così preso a sperimentare un altro modo di fare impresa, che pare funzioni. Sono arrivate a circa 500, infatti, le imprese (non solo in Austria, anche in Germania, in Spagna e in Italia, tant’è che il sito ufficiale del movimento dell’Economia del bene comune, o Gemeinwohloekonomie, è in ben 5 lingue) che stanno percorrendo questa strada. A livello locale si mettono insieme in gruppi più piccoli di imprese, composti anche da altri soggetti, privati cittadini compresi, che condividono questo modo di fare impresa e questo stile di vita, che hanno chiamato “campi di energia”.
Il bilancio del bene comune
Ormai è abbastanza conosciuto, almeno dalle imprese che intendono impegnarsi per un’economia socialmente responsabile o sostenibile, il bilancio sociale o appunto di sostenibilità. Ma all’economia benecomunista non basta, va oltre. Il movimento ha infatti messo a punto un documento di rendicontazione che ha chiamato bilancio del bene comune, adottato lo scorso anno da circa un centinaio di imprese.
Questo bilancio, che è sottoposto a revisione esterna, mette in evidenza quali sono i risultati che un’impresa produce sul versante sociale, ecologico, democratico, solidale. In altre parole quale contributo porta al bene comune. Sulla base di precisi criteri che fanno riferimento ai seguenti valori: dignità dell’essere umano, solidarietà, ecosostenibilità, equità sociale, cogestione democratica e trasparenza.
Il bilancio del bene comune è ovviamente quello principale: quello economico-finanziario serve a verificare che l’impresa sia in grado di sostenersi economicamente. Ma quello che conta è quanto bene comune produce con la sua attività. Mettendo insieme tutte le imprese, dunque, si arriva a un prodotto interno del bene comune.
L’economia del bene comune prevede di conseguenza che le imprese migliori siano premiate, ad esempio con sgravi o incentivi fiscali: chi produce bene comune, insomma, va sostenuto. Fra le altre cose, il modello dell’economia benecomunista prevede che l’orario di lavoro sia ridotto (così c’è il tempo per attività interpersonali, la famiglia, la cultura, per curarsi della collettività) e che ogni dieci anni ci si prenda un anno sabbatico finanziato da un reddito di base. Uno degli obiettivi del movimento è che nel giro di qualche anno si possa arrivare a una legislazione che introduce per ogni impresa l’obbligo di redazione del bilancio del bene comune: dalla visione del futuro alla realtà concreta, quindi.
In Italia è nata Etinomia
Anche in Italia i benecomunisti non stanno certo a guardare. Pochi giorni fa, infatti, si è presentata Etinomia, Imprenditori etici per la difesa dei beni comuni. Un insieme di realtà imprenditoriali, un centinaio circa, della Valsusa che hanno fatto rete per promuovere un’economia che metta al centro il rispetto dell’uomo e del territorio. Un’economia che si costruisce dal basso e non è asservita alla logica del profitto per il profitto, ma che ispirandosi a principi di solidarietà sociale ha come obiettivo la costruzione di un benessere effettivo (quindi diverso dalla sola ricchezza economica misurata dal Pil) e sostenibile, per l’uomo e l’ambiente.
Etinomia è un’associazione dotata di un proprio statuto. E anche di un manifesto etico. Sul sito ufficiale, poi, a rotazione vengono offerte alcune “frasi etinomiche” su cui riflettere. Una di queste, di Albert Einstein, recita: “Bisognerebbe evitare di predicare ai giovani il successo nella solita forma come lo scopo principale nella vita. Il motivo più importante per lavorare a scuola e nella vita è il piacere nel lavoro, piacere nel suo risultato, e la consapevolezza del valore del risultato per la comunità”. Rende l’idea di cosa si può intendere per bene comune.
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Andrea Di Turi
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