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Autunno duro, ma lo spettro della Spagna resta lontano

Debito pubblico, Pil, spread, disoccupazione, fuga dei capitali: a Madrid la situazione è già precipitata, Roma no (e Berlino preme perché non perda tempo)

di Carlo Sala 27 ago 2012 ore 10:22
L’Italia è l’ottava economia del mondo e la terza nell’Eurozona, dietro Germania e Francia, la Spagna è nella top ten delle economie del pianeta e subito alle spalle dell’Italia, quarta, nel club dell’euro. Ed è questa vicinanza – tanto che tempo addietro si era parlato di sorpasso iberico sul Belpaese – a far temere che le difficoltà della Spagna possano contagiare l’Italia e così, in un effetto domino, mandare gambe all’aria la moneta unica. Ma anche se l’autunno alle porte non si prospetta roseo – d’altronde, quando mai si è avuto un autunno roseo? – le nubi sullo Stivale non sono cupe quanto quelle spagnola.

Stando al presente, tra Spagna e Italia restano un centinaio di punti base di differenza nello spread dei rispettivi titoli di Stato in confronto con quello tedesco. Ma mentre i Bonos sono arrivati ad oscillare tra 500 e 600 punti base, costringendo l’Unione europea a un intervento per 100 miliardi e portando il ministro del Bilancio Cristobal Montoro ad ammettere: “Se la Banca centrale europea non avesse comprato i titoli di Stato, il Paese sarebbe fallito”, l’Italia ha visto i propri titoli di debito pubblico oscillare anche intorno a quota 500, ma comunque lontano da quota 600 e non ha richiesto alcun intervento dell’Unione.

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A luglio, dopo che sia Roma che Parigi hanno smentito di aver sottoscritto l’Sos lanciato da Madrid anche a nome di italiani e francesi, è stata Parigi ad accodarsi effettivamente a quell’appello alle autorità europee. E se il premier italiano Mario Monti non esclude in via di principio che un domani anche lo Stivale si trovi in condizioni tali da non potersela cavare con le sue sole forze, le voci di un intervento del Fondo Monetario Internazionale per ora sono solo tali. Indiscrezioni riferiscono che Berlino prema su Roma, in via riservata, perché l’Italia acceda ad aiuti internazionali prima di trovarsi con l’acqua alla gola, quando simili aiuti costerebbero di più e funzionerebbero meno; Madrid oltre gli aiuti per 100 miliardi già in atto è già inserita in un percorso europeo che prevede la possibilità, in modo non automatico ma con valutazioni di volta in volta da parte dell’Eurogruppo, di ulteriori interventi. E il premier iberico Mariano Rajoy ha lasciato chiaramente intendere che la Spagna intende usufruire dell’Esm, il meccanismo europeo di stabilità, una volta che questo – dopo la sentenza della Corte costituzionale tedesca il 12 settembre – fosse in vigore.

Ancora: mentre in Spagna dopo le dichiarazioni di Montoro sono scoppiate sommosse di piazza un po’ ovunque, si sono visti perfino poliziotti intenti a contenere la rabbia dei pompieri, in Italia il malcontento non supera la soglia dei mugugni, coi partiti nel ruolo di ventriloqui della popolazione – “Basta sacrifici” – rispetto al governo Monti e la popolazione lontana dallo scendere in piazza. Credit Suisse calcola che la fuga di capitali dalla Spagna abbia raggiunto la cifra di 70 miliardi al mese e che possa arrivare a 500 miliardi in tutto il 2012; l’Italia registra invece un deflusso di capitali in diminuzione (da marzo a luglio sarebbe di 47 miliardi).

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Non sono rose e fiori ormai neppure in Germania, quindi tantomeno in Italia
. Ma se nel Belpaese le Province lanciano l’allarme sull’apertura del prossimo anno scolastico, i Comuni paventano di non poter più pagare gli stipendi e la Sicilia è a un passo dal commissariamento per la sua improvvida gestione finanziaria, in Spagna la regione di Valencia ha già chiesto soccorso per 18 miliardi allo Stato centrale e la Catalogna segue a ruota, con un’economia che da sola vale un quinto del Pil dell’intera nazione ed è grosso modo pari a quello del Portogallo. Un ulteriore rincaro dell’Iva in autunno – dal 21% al 23% - incombe, ma tagli alle tredicesime o alle pensioni sono stati smentiti, così come ulteriori manovre finanziarie d’urgenza. Gli spagnoli hanno appena visto passare l’Iva dal 18% al 21%, la Moncloa (il Palazzo Chigi iberico) ha varato una manovra di 65 miliardi in aggiunta a quella di pochi mesi prima – da 58 miliardi – e decretato l’abolizione della quattordicesima mensilità per tutto il pubblico impiego, il taglio del 20% delle sovvenzioni a partiti, sindacati e organizzazioni imprenditoriali, il dimezzamento (in origine si pensava di sforbiciare il 60%) del sussidio a disoccupati da oltre 6 mesi e l’abolizione di qualsiasi agevolazione fiscale per l’acquisto della prima casa.

Con 997 miliardi di debito pubblico, pari al 92,1% del Pil e per 800 miliardi dovuto al sistema pubblico nel suo complesso (centrale e periferico), la Spagna fa meglio della (economicamente più grande) Italia, il cui debito ha raggiunto il picco storico di poco meno di 1973 miliardi (oltre il 120% del Pil). Ma Rajoy che per via elettorale è succeduto a José Zapatero s’è trovato di fronte a una situazione in peggioramento rispetto all’eredità che Monti si è trovato quando è stato messo, per via istituzionale ed extraelettorale, al posto di Silvio Berlusconi. Il precedente governo socialista si era impegnato in sede europea a ricondurre il deficit al 6% del Pil, invece ha lasciato al suo successore un disavanzo – per 25 miliardi - pari all’8% del Pil che è ormai giunto all’8,9% e che, secondo stime riportate da El Mundo, ha comportato maggiori oneri, rispetto al previsto, per 25 miliardi, portando le uscite complessive a superare di 90 miliardi le entrate e obbligando a ulteriori tagli per 18 miliardi. Secondo Rajoy, sotto Zapatero il gettito fiscale è stato pari al 35% del Pil: “Il più basso al mondo”.

Ancora, mentre in Italia il ministro del Tesoro Luigi Grilli ha annunciato un piano di dismissioni del patrimonio pubblico dell’1% l’anno così da riportare il debito al 100% del Pil per il 2017 (Mediobanca attribuisce al patrimonio italiano il valore di 1.798 miliardi, il Cresme censisce un patrimonio immobiliare pubblico di 222 milioni di metri quadri, per un valore di 300 miliardi, cui assommare altri 350 miliardi di patrimonio dei Comuni), la Spagna deve far fronte a un settore finanziario privato indebitato per 62 miliardi e a nazionalizzazioni che per la sola Bankia comporteranno costi per 20 miliardi. Né va meglio il comparto pubblico: la sforbiciata alle Province italiane trova come equivalente iberico il via libera a sopprimere solo 2 autonomie locali, il parastato iberico – 4000 soggetti tra imprese pubbliche, fondazioni e consorzi – grava per 32 miliardi di debiti sullo Stato, per 13,8 sulle Regioni e per 9,3 sulle municipalità. La sanità nazionale è indebitata per 16 miliardi (più che quintuplicati dal 2004, quando arrivò Zapatero), il settore ferroviario per 20,7 e quello dell’energia elettrica per 24.

Per far fronte a tutto questo, Madrid deve ottenere sul mercato prestiti per un importo pari al 40% del proprio Pil e gli interessi che paga su tali finanziamenti, visto lo spread Bonos-Bund, sono insostenibili senza l’aiuto esterno dell’Europa. Entro il luglio 2013 l’Italia deve invece rifinanziare sul mercato, attraverso titoli di Stato, il 20% del proprio debito, cioè 337 miliardi (218 dei quali vanno tramite emissioni obbligazionarie entro dicembre) ma ha potuto permettersi di aspettare la decisione della Corte costituzionale tedesca, il 12 settembre sull’Esm, lasciando passare agosto quasi senza tenere aste dei propri titoli di debito.

Infine, pur in un quadro non prossimo a sensibili miglioramenti, la pur crescente (ormai è anch’essa a 2 cifre) disoccupazione che si registra in Italia resta quasi invidiabile rispetto a quella della Spagna: 25% contro quasi 11%, con 5,5 milioni di cittadini iberici senza lavoro.

Carlo Sala
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