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Le valute europee dopo l’euro

E se l’euro davvero avesse i mesi contati? E se davvero si tornasse alle monete di una volta, chi ci guadagnerebbe, chi ci perderebbe? La banca giapponese Nomura ha provato a fare due conti.

di Carlo Sala 25 giu 2012 ore 09:54
Mentre anche l’Europa calcistica dimostra che lo spread tra Grecia e Germania è troppo alto perché la prima possa colmarlo pure in presenza di un rigore, l’Europa monetaria mostra una strana e quasi esorcistica cautela nel valutare quanto l’esercizio della democrazia in terra ellenica potrebbe costare alla valuta comune.

A dispetto dell’euroscetticismo di importanti istituti di credito, che anche dopo il verdetto delle urne elleniche continuano a giudicare l’addio di Atene alla moneta unica plausibile (20% di possibilità secondo Credit Suisse) se non proprio probabile (Morgan Stanley lo quota al 35%) o pressoché certo (Citigroup ipotizza che non ci siano più di una possibilità su 2, se non addirittura una su 4, che le matrici già pronte a Londra per tornare a stampare la dracma non vengano attivate), l’unico studio sull’impatto del break up dell’euro è stato infatti svolto dalla banca giapponese Nomura, lo scorso dicembre, e ha trovato eco soltanto fuori dall’eurozona, sul britannico Daily Telegraph.

Sulla base di un rapporto di cambio euro-dollaro di 1,34 – quale era lo scorso dicembre (oggi siamo intorno all’1,25 con previsione, secondo l’Economist, di un ribasso fino all’1,15 entro l’anno) – Nomura ha stimato già a fine dell’anno scorso che quel break up dell’euro di recente paventato anche dall’FMI, per bocca di Christine Lagarde comporterebbe una rivalutazione del redivivo marco tedesco e una svalutazione per tutti gli altri Paesi oggi aderenti all’euro e per le rispettive redivive valute nazionali.

La Germania, secondo Nomura, vedrebbe la propria moneta apprezzarsi di un 1,3% rispetto a quella in uso oggi (base di calcolo il tasso di cambio dollaro-euro a dicembre, un marco tedesco in quel momento è stato stimato pari a 1,36 dollari). Nel comune peggioramento delle prospettive, tra gli altri Paesi di Eurolandia la sorte peggiore toccherebbe ovviamente alla Grecia, con un deprezzamento del 57,6%. In ordine di gravità, a patire di più subito alle spalle della Grecia sarebbero tutti gli altri Pigs, a partire dal Portogallo, che registrerebbe un deprezzamento della propria moneta rispetto all’euro del 47,2%. Spagna e Irlanda, rispettivamente con -35,5% e – 28,6% - precederebbero l’Italia che subirebbe un deprezzamento del 27,3%. Forte il contraccolpo anche per il Belgio, con – 23,9%, chi se la caverebbe meno peggio – ché dire meglio appare francamente troppo – secondo la banca nipponica sono Francia (-9,4%), Olanda (-7,1%), Austria (-6,8%) e Finlandia (-6,7%).

Le “conseguenze devastanti” da cui sul Financial Times l’ex componente del consiglio direttivo della Banca Centrale europea Lorenzo Bini Smaghi aveva messo in guardia in vista del voto greco e che Moody’s aveva chiaramente indicato in una revisione del rating degli altri Paesi dell’Eurozona sono state solo parzialmente evitate nel momento in cui Fitch ha fatto sapere che non avrebbe ritoccato i propri giudizi sui componenti del club della moneta unica. A neanche una settimana dal voto ellenico, la stessa Moody’s ha ribassato il giudizio su una quindicina di banche europee e non, detentrici dei titoli di Stato emessi da Paesi dell’Eurozona. Bonos spagnoli e buoni del Tesoro italiani nel frattempo avevano già fatto qualche ulteriore giro sulle montagne russe, quanto a differenziale rispetto ai Bund tedeschi, quasi a dare empiricamente ragione al Nobel per l’economia Nouriel Roubini, a cui dire il test decisivo dell’euro si gioca in Italia e Spagna. E se l’economista americano di impronta neokeynesiana Paul Krugman dimostra quanto meno di essere più ottimista di George Soros quando afferma di non sapere se l’euro ci sarà ancora tra 12 mesi – contro i 3 mesi di vita residua diagnosticati dal finanziere-speculatore di origine ungherese -, il pro-rettore dell’Università Cattolica di Milano vedere proprio in questo insistente e forte altalenare degli spread tra titoli di Paesi accomunati dalla moneta il certificato di morte della valuta europea. I titoli di Stato americani continueranno a essere preferiti in quanto più affidabili, è stato il pronostico del Wall Street Journal a urne greche appena scrutinate.

Per far fronte a titoli denominati in euro una volta che l’euro non esistesse più intanto già circola l’ipotesi – formulata anche da Nomura e trapelata sulla Bbc britannica - del ripristino di un sistema ricalcato sul vecchio Ecu predecessore dell’euro: una valuta virtuale – il novello Ecu, il cui valore sarebbe in qualche modo mediano rispetto a quello delle 17 valute confluite nell’euro – farebbe da referente per le redivive valute nazionali che vedrebbero il proprio valore legato a quello appunto dell’Ecu entro determinate bande d’oscillazione (proprio come accadeva negli anni ’70).

Che il potere d’acquisto degli italiani si riduca è comunque fuori discussione, tanto per chi crede che l’euro si salverà quanto per chi prevede un ritorno alle divise nazionali. Tra i primi il consulente finanziario Lucio Sgarabotto pensa che “la quotazione dell’euro rispetto al dollaro perderà probabilmente ancora qualcosa” nei prossimi mesi, confermando il trend in discesa che si registra dalla fine dell’anno scorso e che fa pronosticare un cambio euro-dollaro a 1,15 entro l’anno. Tra i secondi l’ex direttore generale di Confindustria, Paolo Savona, a cui dire il ritorno alla lira e la conseguente svalutazione monetaria comporteranno un’inflazione a 2 cifre, del 18-20%, stile anni Settanta, e peraltro – sempre a suo dire – non insuperabile. Il consulente finanziario Alfonso Scarano getta comunque acqua sul fuoco. “L’83% della ricchezza degli italiani è data dalla casa – ricorda sulla scia dell’analisi compiuta l’anno scorso da Bankitalia – quindi gli italiani hanno molto da perdere dalla caduta dei valori del mercato immobiliare” piuttosto che da un deprezzamento di una rediviva lira.
 
Carlo Sala
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