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L’ammonimento argentino sui costi dell’addio all’euro

L'addio della parità col dollaro, ha deprezzato il peso provocando un’inflazione oltre il 20%. E l'aumento dei prezzi si è mangiato l'altalenante ripresa dell'economia del Paese latinoamericano

di Carlo Sala 18 apr 2013 ore 09:55
Il dollaro non è mai stato, diversamente dall’euro in Italia, la moneta ufficiale in vigore in Argentina. Ma per molti anni, fino al crac da 100 miliardi, il peso argentino è stato tenuto d’autorità ancorato al dollaro, con un cambio fisso alla pari: un dollaro per un peso. Se l’Argentina può dunque essere un termine di paragone per qualunque Paese oggi legato all’euro – termine di paragone perfino troppo benevolo, ché appunto quel Paese aveva mantenuto una propria divisa e relativa sovranità monetaria – la lezione sui costi derivanti dall’abbandono di una moneta che ne viene è tutt’altro che incoraggiante.

Lungo i confini del Paese latinoamericano ci sono perfino cani addestrati ad annusare i dollari, dopo che l’abbandono della parità col dollaro ha portato un’inflazione del 20%. Buenos Aires ha così introdotto misure restrittive nel cambio del peso nazionale, che nel fare la fortuna dei cambiavalute in nero – cuevas è il nome argentino per i retrobottega e gli spazi clandestini addetti alla bisogna – hanno costretto il resto della popolazione a vedere i biglietti verdi solo in occasione di un comprovato viaggio all’estero e previa richiesta di cambio inviata on-line alle autorità preposte (che solitamente concedono di cambiare in dollari importi molto inferiori a quelli per i quali viene fatta richiesta).

Un dollaro ogni 5,14 pesos il tasso di cambio ufficiale, il mercato quota invece un dollaro a 8,44 pesos, così chi può permetterselo compra con carta di credito in valuta estera e copre poi le spese della stessa carta di credito con pesos comprati in patria cambiando valuta estera. A fronte di una tassazione sugli acquisti con carta di credito recentemente portata dal 15% al 20%, un differenziale del 40% tra il tasso di cambio ufficiale e quello di mercato relativo a pesos e dollari lascia ancora decisamente convenienti simili pratiche. Chi invece all’estero acquista materiali o all’altro per ragioni d’ufficio è tenuto al nullaosta governativo.

I 100 dollari cui equivalevano le banconote da 100 pesos all’epoca del cambio fisso paritario sono un ricordo che un’inflazione attesa per quest’anno al 25% ha reso ormai quasi sbiadito (rendendo invece di moda, per gli argentini che possono raggiungerli, i bancomat di Cile e Uruguay). Quei 100 pesos valgono oggi ufficialmente 19,5 dollari e in realtà, al cambio di mercato, 12. Nessun altra valuta sudamericana è scesa così in basso: 100 pesos messicani equivalgono infatti a 81 dollari, 200 sole peruviane a 77 dollari, 100 real brasiliani a 50 dollari, 20mila pesos cileni a 42 dollari, 50mila pesos colombiani a 27. Il prosciutto stagionato, uno dei prodotti più consumati nel Paese, è passato così dai 29 pesos per chilo del marzo 2008 agli 87 pesos attuali.

Di fronte a un simile caro-vita, il governo alterna la minaccia di multe a quella di vitto e alloggio a carico della fiscalità generale (leggasi detenzione) a chi osa mettere in dubbio le scarne cifre ufficiali sull’andamento economico che vengono messe a disposizione. Certo è che prendere per buona un’inflazione al 10,8% annuo, come quella dichiarata dal governo a febbraio, consente di salvaguardare la propria libertà fisica ma offre ben poco d’altro. Per lo stesso motivo, per non ammettere implicitamente una svalutazione della divisa nazionale maggiore di quella ufficialmente riconosciuta, la Banca centrale ha finora respinto ogni sollecitazione a introdurre nuove banconote di taglio maggiore ai 100 pesos (attualmente il taglio massimo).

“Tassa occulta” sui redditi, secondo l’insegnamento del liberale Luigi Einaudi, l’inflazione si sta mangiando quella ripresa economica in nome della quale era stato deciso – e da taluni salutato con favore – l’addio alla parità col dollaro. La crescita del Pil negli ultimi anni peraltro è stata quanto mai altalenante: il +7% annuo del 2008 è stato seguito da uno striminzito +0,9% nel 2009 e il successivo biennio con tassi di crescita da tigre asiatica (+9,2% nel 2010 e +8,9% nel 2011) ha lasciato spazio nel 2012 a un assai meno brillante +1,9%. Di contro, secondo il Wall Street Journal, l’inflazione è stata del 22,8% l’anno scorso (9,5% nelle versioni ufficiali argentine) e sarà del 25,6% quest’anno (10,8% la stima di fonte ufficiale).

La via intrapresa dall’Argentina era stata guardata con favore, nel 2011, anche dal premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, lo stesso americano della cui benedizione si fregia Beppe Grillo, ma i dati ufficiali di Buenos Aires sono stati contestati all’inizio di quest’anno anche dal Fondo Monetario Internazionale (istituzione invisa a Stiglitz quanto la gestione dell’Eurozona). E certo non aiuta Buenos Aires, le cui emissioni obbligazionarie sui mercati internazionali devono fare i conti con la svalutazione della divisa in cui sono denominate, la morte del presidente venezuelano Hugo Chavez: sponda attraverso cui l’Argentina puntava a controbilanciare il peso del Brasile in seno al Mercosur (il mercato comune dei Paesi latinoamericani), Caracas era un affezionato cliente dei Tango-bond.

Carlo Sala Questo scritto è redatto a solo scopo informativo, può essere modificato in qualsiasi momento e NON può essere considerato sollecitazione al pubblico risparmio. Il sito web non garantisce la correttezza e non si assume la responsabilità in merito all’uso delle informazioni ivi riportate.
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