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Csr, economia e imprese alla sfida della responsabilità sociale

Un modo responsabile di condurre l’attività d’impresa che guarda non solo ai risultati economico-finanziari ma anche all’impatto sociale e ambientale che un business produce

di Andrea Di Turi 10 gen 2013 ore 11:13

Per indicarla c’è chi usa il termine sostenibilità, chi parla di “triple bottom line” o di “people planet profit” e chi, più di recente, di “shared value” cioè valore condiviso. Sono tutte espressioni corrette, anche se pongono accenti differenti. Nei fatti, però, il termine con cui è più conosciuta è in realtà un acronimo: csr, vale a dire corporate social responsibility, che ha in rsi (responsabilità sociale d’impresa) il corrispondente acronimo italiano.

Csr significa un modo responsabile di intendere e condurre l’attività d’impresa, che guarda non solo ai risultati economico-finanziari ma anche all’impatto di ordine sociale e ambientale che un business produce: come vengono trattati i dipendenti, i rapporti coi fornitori, le relazioni con la comunità e il territorio in cui si opera, il rispetto dei diritti umani e dei diritti sindacali, la produzione di rifiuti, le emissioni di gas serra, l’inquinamento causato dai processi produttivi, l’utilizzo di energia rinnovabile e così via. La csr tiene conto di una quantità di dimensioni, indicatori, parametri, criteri, al fine di orientare nel senso della responsabilità l’attività di un’impresa. E più in generale di una qualsiasi organizzazione, anche pubblica o non profit.

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La definizione dell’Unione europea
- L’Unione europea in un importante documento pubblicato a fine 2011, intitolato “Strategia rinnovata dell'UE per il periodo 2011-14 in materia di responsabilità sociale delle imprese”, ha fornito la definizione di csr che viene solitamente utilizzata: la csr è la “responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società”.

Questa definizione ha aggiornato, semplificandola e allo stesso tempo specificandola ulteriormente, la definizione che sempre la Commissione europea aveva elaborato in un precedente documento risalente a dieci anni prima (il Libro verde sulla csr del 2001), dove per csr si intendeva “l'integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. Questa evoluzione nella definizione è stato un passaggio importante, che ha sintetizzato l’evoluzione del dibattito sulla csr avvenuta in un decennio a livello europeo ma anche internazionale.

Da shareholder a stakeholder - La csr prevede un cambio di prospettiva e soprattutto un cambio di obiettivi per le imprese che intendono adottarla in modo serio. Si tratta di rivedere il modello di business finalizzato unicamente alla creazione di valore per gli azionisti, o shareholder, e di sviluppare un modello di business orientato alla soddisfazione delle aspettative di tutti i portatori di un qualche interesse nell’attività dell’impresa, vale a dire gli stakeholders. Che tipicamente vengono classificati in: dipendenti, azionisti (che continuano evidentemente a essere un riferimento importante per l’impresa, ma non più l’unico) e finanziatori, fornitori, clienti e consumatori, ambiente, comunità (cittadini, organizzazioni della società civile), pubblica amministrazione, comunque ulteriormente articolabili al loro interno a seconda ad esempio del tipo e della dimensione di un’impresa, o del settore di riferimento in cui opera.

La figura degli stakeholder è la figura-chiave di una strategia d’impresa orientata nel senso della csr. Al punto che l’acronimo csr viene anche declinato come “corporate stakeholder responsibility”, proprio perché la teoria degli stakeholder, compiutamente formulata dal professor Edward Freeman negli anni ’80, ne è una parte costituente fondamentale. In estrema sintesi, dunque, la csr sposta (o dovrebbe spostare, se realmente integrata nella vita dell’impresa) il baricentro delle strategie aziendali dalla figura dello shareholder, prima egemonica, alla figura degli stakeholder, richiedendo all’impresa l’adozione di un approccio multi-stakeholder nella definizione di piani e azioni.


Gli “strumenti” della csr - La csr nel corso del tempo ha sviluppato una vera e propria strumentazione, che le imprese intenzionate ad impegnarsi nella prospettiva della responsabilità sociale devono conoscere e utilizzare.

Lo strumento principale è il bilancio sociale, o di sostenibilità: si tratta di un bilancio in cui l’impresa informa non solo sulle sue performance economico-finanziarie ma anche su quelle sociali e ambientali. Per la redazione del bilancio sociale si è affermato uno standard di fatto rappresentato dalle Linee guida del GRI-Global Reporting Initiative, oggi utilizzate in larghissima misura a livello mondiale per la redazione di questo documento. La nuova frontiera del bilancio sociale è invece il bilancio o report integrato, sul quale si sta lavorando per la definizione di uno standard condiviso in ambito internazionale.

Un altro strumento importante è il codice etico: è un documento in cui l’impresa stabilisce i principi generali e le regole di comportamento che essa, e tutti i suoi componenti (non di rado anche gli stessi fornitori dell’azienda), sono tenuti a rispettare.

Un ulteriore strumento è costituito dalle certificazioni che attestano come l’impresa rispetti determinati standard o requisiti in materia di csr. Si possono suddividere in due grandi ambiti: le certificazioni sociali, come la Sa8000, e quelle ambientali, come la Iso14001.

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Ci sono infine i programmi, le convenzioni e le linee guida internazionali che negli anni si sono affermati come riferimento importante per le imprese impegnate nella csr, le quali tendono ad aderirvi per testimoniare il loro impegno socialmente responsabile. Uno dei programmi più importanti è il Global Compact promosso dall’Onu, molto conosciute sono anche le Linee Guida dell’Ocse per le imprese multinazionali.

Il “business case” della csr - La csr aiuta ad ottenere migliori risultati economico-finanziari, insomma conviene? Per molte imprese, ancora oggi, è questa la domanda fondamentale che viene posta. Sarebbe però più corretto porsene un’altra: quanto si rischia a non adottare una strategia di csr?

Il “business case” della csr, infatti, ambito nel quale sono state condotte una innumerevole quantità di analisi e indagini nel corso dei decenni, dice sostanzialmente che la csr non deve essere vista come un costo ma come un investimento. Finalizzato in pratica a migliorare le relazioni con tutti gli stakeholders (clima aziendale, rapporti coi fornitori, migliore utilizzo delle risorse, minori sprechi ecc.) e, per questa via, la reputazione dell’impresa e quindi la sua capacità di conseguire risultati economici positivi in modo durevole nel tempo.

Soprattutto, però, un’azienda con una efficace strategia di csr si rivela solitamente più capace, rispetto a una che ne è priva, di individuare con anticipo e gestire in modo migliore i fattori di rischio che minacciano la profittabilità del proprio business nel lungo periodo. In particolare quei fattori di rischio (si pensi ad esempio agli effetti del climate change) che una gestione d’impresa tradizionale solitamente non considera, poiché esulano dall’approccio classico alla gestione aziendale. A caratterizzare la csr è dunque lo spostamento del focus della gestione da fattori puramente economico-finanziari a fattori socio-ambientali, e da un’ottica di shortermismo (attenzione ai risultati di breve-brevissimo periodo, tipica dei mercati finanziari e concausa della crisi scaturita nel 2007-2008) a un’ottica di longtermismo (prospettiva di sviluppo dell’azienda sostenibile nel lungo periodo).

Il rischio “green washing” - Che un’impresa utilizzi gli strumenti della csr prima ricordati è una sorta di condizione necessaria per dare credibilità al proprio impegno in chiave csr, ma non sufficiente. Non è infatti una garanzia del fatto che il suo comportamento sia autenticamente ispirato a principi e criteri di csr.

È proprio la maggiore o minore coerenza tra ciò che si dichiara - a volte in bilanci sociali pieni di volti sorridenti ma carenti di informazioni sugli aspetti più critici legati alla effettiva sostenibilità sociale e ambientale di un business - e ciò che effettivamente si pone in essere, che ha portato a coniare l’espressione green washing. Che indica appunto il tentativo, da parte di imprese che non godono di una buona reputazione, di rifarsi un’immagine dichiarando il loro impegno nella responsabilità sociale e l’adozione di tutti gli strumenti che la csr prevede.

La difficile azione di verifica della coerenza tra dichiarazioni e comportamenti delle imprese, che non può evidentemente essere lasciata solo alle imprese stesse per via del rischio intrinseco di eccessiva auto-referenzialità, viene solitamente svolta da organizzazioni indicate col termine di watch dog (cani da guardia). Esse effettuano indagini mirate in materia di csr, ad esempio su un determinato settore, ma spesso anche su una sola azienda, specie quando è di grandi dimensioni, da cui non di rado nascono azioni di denuncia e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica su comportamenti delle imprese ritenuti non responsabili.

Per le aziende quotate, si può dire che lo stesso lavoro viene effettuato dalla agenzie di rating etico, che analizzano le performance Esg (ambientali, sociali e di governance) delle imprese quotate. Le loro valutazioni stanno alla base della composizione degli indici azionari etici utilizzati da chi investe in finanza socialmente responsabile (Sri), la quale rappresenta in sostanza l’altro lato della medaglia, visto dalla prospettiva di chi investe, della csr.

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Csr manager crescono - Per presidiare strategie e iniziative di csr, le aziende – specie quelle grandi e quotate - hanno progressivamente inserito nei loro organici la figura del csr manager. Si tratta, appunto, del responsabile della csr, a cui fanno capo le politiche, i programmi, le iniziative aziendali di csr e l’utilizzo degli strumenti di csr di cui s’è detto, in primo luogo per quanto riguarda la preparazione del bilancio sociale. Una recente indagine del Csr Manager Network Italia, l’associazione dei csr manager italiani, ha rilevato come in pochi anni il numero di questi professionisti sia aumentato notevolmente: anche questo va letto come un segnale della progressiva affermazione della csr nella cultura imprenditoriale.

Andrea Di Turi
@andytuit

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