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Previdenza sociale: serve una “rete” europea

La storia dei sistemi di Welfare State dei 27 paesi dell’Unione è molto diversa. Lentamente si raggiunge una convergenza verso un sistema liberale, ma una programmazione sovranazionale si fa più urgente in tempi di crisi e non dev’essere solo una mera dichiarazione di intenti

di Mattia Baglieri 13 apr 2011 ore 09:20
La storia della previdenza sociale si intreccia con quella del Welfare State europeo e con la storia tutta del Novecento. Con previdenza intendiamo il complesso istituzionalizzato dei provvedimenti previsti per l’assistenza pubblica (ai disoccupati, agli anziani, ai disabili…), vale a dire uno dei più complessi apparati burocratici dello Stato moderno.

Oggi, se i sistemi di protezione sociale in Europa convergono vieppiù verso un modello liberale, rimangono comunque profondamente marcate le differenze storiche. Secondo Denis Stokkink, leader del Circolo di riflessione Europeo per la Solidarietà (www.pourlasolidarite.eu) possiamo dividere i sistemi di Welfare in cinque grandi modelli europei (cfr. il bell’articolo “Diversité continentale” nel Monde Diplomatique di marzo 2011).

La prima famiglia, (propria della Francia, della Germania, del Lussemburgo, del Belgio, dell’Olanda) si rifà al modello bismarckiano in cui la solidarietà professionale è condivisa tra il lavoratore dipendente ed il datore di lavoro. Occorre aver lavorato e contribuito ai costi previdenziali per aver diritto ad indennità di disoccupazione e a pensione di anzianità. Il potere pubblico completa questo regime attraverso sistemi di assistenza, come la Copertura Medica Universale (CMU), nel caso francese.

La seconda famiglia fa riferimento al modello storico nato in Gran Bretagna all’inizio del secolo scorso con William Beveridge: le imposte statali coprono soprattutto i bisogni di base. L’offerta è di una protezione sociale minimalista e propriamente “assistenziale” che aiuta soprattutto le fasce più deboli della popolazione. Le prestazioni sono piuttosto uniformi, senza legame proporzionale alla contribuzione e destinate ai più bisognosi. Le altre necessità previdenziali sono prese in carico da sistemi assicurativi privati che possono avere convenzioni con il potere pubblico.

Il modello scandinavo finanza attraverso alte imposte delle prestazioni e dei servizi sociali universali e di alto livello. La protezione sociale costituisce un diritto uniforme per tutta la cittadinanza. La ridistribuzione è ugualitaria (mentre nel caso bismarckiano è proporzionale alla contribuzione). La flexicurity – nonostante certe fasi di crisi – è ancor oggi un sistema previdenziale “massimalista”.

Il modello latino (caratteristico di Spagna, Grecia, Portogallo) è storicamente fondato su ammortizzatori che sovente bypassano il potere pubblico e fanno affidamento su legami protettivi di carattere familiale, religioso e su un potere forte in capo alle autonomie locali. L’Italia nel suo complesso giace a metà tra quest’ultimo modello e quello bismarckiano, anche se certi tradizionali legami tra famiglie, reti amicali e protezione sociale non vengono attualmente confermati dai dati statistici e sociologi più attuali (a tal proposito estremamente interessante lo studio di Pierpaolo Donati e Luigi Tronca, Il capitale sociale degli italiani. Le radici familiari, comunitarie ed associative del civismo, Angeli, Milano, 2008).

Il modello dei paesi dell’Europa ex-comunista è erede di un originale altresì massimalista, anche se oggi le provvidenze della mano pubblica stanno vertiginosamente diminuendo.

Le differenze all’interno del complesso dei sistemi previdenziali restano molto alte e gli osservatori lamentano un mancato sforzo di armonizzazione che vada oltre la dichiarazione di intenti, tanto più importante oggi in cui è necessario far leva anche sullo Stato sociale e sul sostegno alla domanda per l’uscita dal guado della crisi. Il Trattato di Lisbona richiede che la dimensione sociale entri più specificatamente tra gli indirizzi politici dell’Unione Europea e dei suoi organi decisionali. A dire il vero, dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht molto è stato fatto riguardo alla protezione sociale dei cittadini europei, con precipuo riferimento alla libera circolazione delle persone ed alla preservazione dei loro diritti in materia assicurativa, previdenziale e di malattia. Ancora, una strategia integrata è stata attuata con riguardo alla tracciabilità dei prodotti alimentari, all’etichettatura, alla regolamentazione sul tabacco (per una volta con ruolo precipuo dell’Italia).

L’Institute for European Social Protection ha al centro del suo impegno questa visione di “solidarietà comune” europea che si basa anche sulla considerazione della solidarietà e della previdenza sociale come un impegno anche di carattere economico e non solo legato alla generosità.

Il problema cruciale con cui tutti i paesi fanno i conti, in tempi di crisi palese dell’integrazione europea e di ripiegamenti nazionali, è quello del finanziamento del welfare. I sistemi di protezione sociale europei, infatti, vengono essenzialmente finanziati attraverso le rivenute salariali. La qualità del lavoro ha pertanto un ruolo fondante, laddove le posizioni lavorative dell’ultimo decennio nell’Unione sono soprattutto a tempo determinato, a progetto, a tempo parziale. Henry Lourdelle della Confederazione Europea dei Sindacati (CES) ha più volte sostenuto la necessità di una tassazione delle grandi rendite finanziarie a sostegno della spesa sociale. I partiti socialisti e di sinistra hanno cominciato a parlarne senza timore e a presentare proposte indirizzate in tal senso, con rispetto delle rispettive specificità nazionali.

La necessità di uno Statuto Europeo della Previdenza sociale rimane all’ordine del giorno e la sua portata deve avere efficacia nel diritto delle politiche pubbliche europee, magari rinforzando il ruolo delle agenzie di mutualità già presenti nell’Unione a livello sovranazionale.

Mattia Baglieri
matt.baglieri@yahoo.co.uk
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