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Meglio rischiare di vincere o evitare a priori di perdere?

La nostra mente stima in modo “apparentemente distorto ed irrazionale” i guadagni e le perdite, qual è la causa di questa asimmetria? Una violazione sistematica della razionalità economica

di Erica Venditti 10 set 2013 ore 10:43
Nella rivista internazionale The Journal of Neuroscience è stato pubblicato nei giorni scorsi un interessante contributo scritto per mano di otto neuroscienziati cognitivi dell’Università San Raffaele di Milano, il lavoro meticoloso e degno di nota parte dal presupposto che esista una provata asimmetria tra perdite e vincite.

Daniel Kahneman, stimato psicologo cognitivo, nel 1979 insieme a Amos Tversky ha formulato la teoria del prospetto, una teoria della decisione che per i suoi principi rappresenta un’alternativa alla teoria economica conosciuta come teoria dell’utilità attesa, ideata da John von Neumann e Oskar Morgenstern. La teoria del prospetto intende dimostrare empiricamente come la perdita di una somma di denaro, ipotizziamo 100 euro, sia molto più pesante in termini di emozioni e dispiacere rispetto alla vincita di una somma pari allo stesso valore.

La nostra mente stima quindi in modo “apparentemente distorto ed irrazionale” i guadagni e le perdite. L’articolo punta proprio a spiegare che cosa agisca sulla nostra mente al punto tale da inibire la nostra lucidità e quindi la capacità di saper stimare in modo ponderato e con raziocinio i reali vantaggi derivanti dai guadagni e le effettive delusioni indotte dalle perdite. E’ come se le scelte degli esseri umani, per qualche strana ragione, violassero sistematicamente i principi della razionalità economica.

La teoria del prospetto è stata considerata di tale pregio e autorevolezza che Daniel Kahneman nel 2002 ha vinto il premio Nobel per l’economia, le sue intuizioni sono risultate utili soprattutto nel descrivere quelli che da fuori potevano sembrare degli strani e bizzarri comportamenti messi in atto dagli investitori e dagli agenti economici.

Il processo apparentemente irrazionale tale per cui una perdita di denaro di una certa somma al mattino ci genera uno sconforto maggiore rispetto alla felicità e appagatezza di ritrovare la medesima somma al pomeriggio è determinato da un fenomeno conosciuto in psicologia come “avversione alle perdite”. E’ stato stimato che se perdessimo 100 euro per ritrovare la giusta “serenità” avremmo bisogno di recuperarne almeno 225, una somma dunque addirittura superiore al doppio di quella effettivamente persa.

Che cos’è l’avversione alle perdite? Per gran parte dei soggetti la motivazione ad evitare una perdita è maggiore a quella volta alla realizzazione di un guadagno, ad esempio sarebbe più “digeribile” per la nostra mente rinunciare ad uno sconto piuttosto che accettare un aumento di prezzo, sebbene la differenza tra prezzo iniziale e quello finale sia la stessa. E come se la stessa decisione potesse dare origine a scelte opposte se gli esiti vengono vissuti dal soggetto come perdite (un capo è aumentato di 10 euro) piuttosto che come mancati guadagni (non mi è stato applicato lo sconto di 10 euro). Il prezzo di partenza è 100, nel primo caso ci rimetterei 10 euro a causa di un rincaro ed il prezzo finale sarebbe 110, nel secondo, non mi viene applicato lo sconto quindi anziché pagare 90, pago 100, non ottenendo il guadagno sperato di 10 euro. Sebbene la differenza in termini di soldi sia la medesima 10 euro, è stato dimostrato che il primo caso, vissuto come una perdita crea più malumore del secondo.

L’irrazionalità economica, se di irrazionalità si può parlare, si manifesta chiaramente anche nella tendenza a non accettare il rischio investimento o una scommessa nella quale c'è il 50% di probabilità di perdere 10 e il 50% di guadagnare perfino 20. Per questa ragione la ricerca condotta dal San Raffaele è stata finanziata in buona parte dalla Schroders, il più grande gruppo al mondo di fondi di investimento e risparmio gestito, con sede nella City di Londra, allo scopo di investigare le basi celebrali dell’avversione alle perdite, che possono influenzare le scelte/non scelte economiche degli individui.

Matteo Motterlini, uno dei principali autori del lavoro ci tiene a precisare che «Il nostro cervello non traffica con guadagni e perdite allo stesso modo. Li tratta come fenomeni distinti. Non è progettato per fare quello che vuole la teoria economica neoclassica, cioè soppesare razionalmente la combinazione di probabilità, in particolare di rischio, e rendimenti attesi. Il cervello non fa naturalmente tale tipo di operazione, ma tratta il rendimento come anticipazione di guadagno - il centro cerebrale responsabile è il nucleo accumbens - ed elabora il rischio con altre aree, tipicamente aree della corteccia frontale e l'incertezza con l'insula».

Noi trattiamo il rischio facendo intervenire l’amigdala, un piccolo organo celebrale che somiglia ad una mandorla, in greco antico amygdala appunto, che è una sorta di archivio della nostra memoria emozionale, che di consueto interviene quando sono in gioco aspetti legati al timore.

In pratica questi due sistemi agiscono separatamente, non si valutano razionalmente i pro e i contro di una scelta finanziaria o di una scommessa, ma le emozioni che il nostro cervello percepisce potenzialmente legate ad una perdita sono più vive rispetto a quelle che potrebbero derivare dal guadagno nella stessa operazione e per qualche ragione questo aspetto conduce l’individuo tendenzialmente a non rischiare.

Lo studio ha misurato altresì le differenze soggettive nell’avversione alle perdite e alla propensione al rischio, vi sarebbe infatti una provata correlazione tra le dimensioni dell’amigdala e quanto ciascuno nel prendere decisioni sovrastini o meno il peso delle possibili conseguenze negative di quella scelta rispetto agli eventuali “pro” della stessa. Questo indice individuale di avversione alle perdite, differente quindi da soggetto a soggetto, rischia altresì di divenire una sorta di freno che impedisce agli individui di valutare e quindi prendere correttamente le decisioni migliori.

Motterlini aggiunge in conclusione  “I presupposti dell'economia della razionalità sono neurobiologicamente falsi o irrealistici. Possiamo imparare a essere razionali nelle scelte economiche, ma non lo siamo naturalmente, quando si attivano i processi automatici e in larga parte inconsci. Ciò non può non avere conseguenze su come progettiamo interventi di politica economica e sulle nostre istituzioni finanziarie”.

Insomma questa parte del cervello, così piccola, può condizionarci la vita nel bene, impedendoci di essere imprudenti e di rischiare eccessivamente, ma anche nel male, privandoci di eventuali guadagni tarpandoci le ali a priori.

Interessante sarebbe ora uno studio che trovasse un modo per renderci meno dipendenti dall’amigdala e che ci fornisse gli strumenti per metterla, almeno ogni tanto, “a tacere,” al fine di poter divenire più razionali nel calcolo oggettivo dei rischi e dei benefici  di una scelta economica, come una scommessa o un investimento, senza essere condizionati eccessivamente dal timore o dalle passate esperienze negative.

Inoltre sarebbe altresì affascinante scoprire se l’amigdala ci influenza negativamente anche in altre scelte che comunque implicano, seppur in modo diverso e distante dall’economia, una vincita ed una perdita, ad esempio nell’amore. Meglio rimanere single e non soffrire o innamorarsi col rischio di poter perdere un domani l’affetto della persona amata?

In sintesi sarebbe importante capire quanto e come questa piccola porzione del cervello condiziona la nostra esistenza.

Erica Venditti

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