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Nuova economia: il meglio deve ancora venire

Sarà un’economia leggera, più sostenibile e con un’idea di ricchezza e uno stile di consumi in cui quelli culturali e ambientali avranno assunto una grande rilevanza.

di Marco Delugan 31 gen 2012 ore 09:54
Un’economia diversa: pulita, colta, leggera. Meno manifattura e più software. Ma il guado non sarà facile da passare. E non sarà breve. Di tutto questo abbiamo parlato con Cristiano Antonelli, professore di Economia all’Università di Torino.

Quali sono, a suo parere, le cause dell’attuale crisi economica?

La crisi che stiamo vivendo è dovuta al processo di cambiamento continuo, tipico del capitalismo, che in certi periodi si accentua e si manifesta anche attraverso le crisi finanziarie. Io non voglio negare la rilevanza delle crisi finanziarie, ma voglio dire che non sono la causa più importante. In primo luogo sono ricorrenti e intrinseche, e non accidenti dovuti a errori, malevolenza o cattiveria. Fanno parte del processo di trasformazione costante che è una delle caratteristiche ineliminabili e anzi prevalenti della storia economica.

Che ruolo hanno avuto le crisi finanziarie in questa fase economica?

Le crisi finanziarie sono tipicamente dovute da un eccesso di investimento, come quello che si è determinato alla fine del ventesimo secolo per l’euforia prodotta dagli immensi profitti che si ottenevano con i primi investimenti sulle Information Communication Technology (Ict).

E questa euforia ha indotto il sistema finanziario a concedere crediti anche ad attività marginali, che a malapena potevano permettersi quegli investimenti e quelle spese, euforia ed eccesso di ottimismo che caratterizzano l’introduzione e la prima diffusione in un sistema economico di quelle nuove tecnologie che costituiscono un passaggio radicale nel modo di produzione.

Questo eccesso di ottimismo è stato sanzionato dalla crisi del 2001 che, tamponata con grande intelligenza dall’allora presidente della Fed Alan Greenspan con un’immensa creazione di liquidità, è purtroppo degenerata nel 2007 a seguito di incrementi eccessivi dei tassi di interesse, che erano per altro patologicamente bassi.

Come si vede, in questa storia le Itc e la crisi finanziaria sono intimamente collegate. Qual è il punto, adesso? E’ che le Ict non devono essere trattate come l’ennesimo gadget, come una nuova tecnologia che semplicemente si aggiunge ad altre, perché sono una cosa molto più seria ed importante.

Perché le Ict sono così importanti?

Unite alla globalizzazione, producono una nuova divisione internazionale del lavoro. Divisione in cui noi, a tendere, produrremo solo conoscenza, e non anche conoscenza, perché se fosse anche conoscenza sarebbe come aggiungere, per esempio, 500mila lavoratori della conoscenza al resto di un sistema che rimane grossomodo uguale. Con la globalizzazione la trasformazione è invece radicale, e nei paesi occidentali diventerà prevalente l’economia della conoscenza, intesa proprio come industria.

Dove, in occidente, si vede maggiormente questa trasformazione?

Stati Uniti, Regno Unito, Olanda e Francia. In questi paesi la quota dell’occupazione nel settore manifatturiero, a partire dagli anni ’70, quando nei paesi occidentali era intorno al 30%, è scesa oggi sotto il 10%. Quei paesi hanno perso occupazione manifatturiera e l’hanno sostituita con quella di un particolare sottoinsieme dei servizi, e cioè i Knowledge Intensive Business Service (Kibs), servizi alle imprese ad alta intensità di conoscenza.

In questi paesi l’occupazione nei Kibs supera l’occupazione manifatturiera, il sorpasso è avvenuto intorno alla fine degli anni ’90. Tra i paesi occidentali più avanzati ci sono due grosse eccezioni a questo spostamento occupazionale, la Germania e l’Italia, quelli che sono cresciuti meno negli ultimi 15 anni. Noi e la Germania siamo partiti come tutti col  30% di occupazione manifatturiera, ma siamo ancora al 20%, e intorno all’8% per quanto riguarda i Kibs. La Germania da un paio di anni ha buone performance economiche, secondo me transitorie, ma fino al 2004 andava anche peggio dell’Italia.

E’ possibile che in Italia la grande prevalenza di piccole e piccolissime imprese faccia sì che la domanda di servizi alle imprese sia più bassa che in altri posti dove le imprese sono più grandi?

Questo è sicuramente possibile. Una quota molto importante della crescita dei Kibs è infatti riconducibile agli effetti di delocalizzazione delle multinazionali. Immagini che un domani la Fiat chiuda Mirafiori e ci sia una riorganizzazione societaria, i 25mila dipendenti degli uffici torinesi potrebbero in un nuovo assetto societario diventare lavoratori Kibs. Un travaso dal terziario interno al terziario esterno. Nel caso degli Stati Uniti questo fenomeno è impressionante perché le fabbriche sono state veramente chiuse e spostate in Cina. A quel punto tanti servizi che una volta erano intrinseci alla produzione perché legati da una prossimità fisica sono diventati delle attività completamente separate.

Una nuova divisione internazionale del lavoro, e poi?

Nel nuovo mondo del 21esimo secolo non sarà solo cambiata la divisione internazionale del lavoro, nel senso di chi fa che cosa, ma soprattutto del come si fa. L’occidente sempre di più produrrà attività economica con un’altissima intensità di skill e conoscenza, e una bassissima intensità di capitale, con l’Asia che farà tutto l’opposto, e cioè produrrà con tantissimo capitale e tutto sommato pochissime skill. Uno dei punti importanti di questa trasformazione è che il valore aggiunto generato dall’economia della conoscenza è inferiore a quello generato dalla manifattura.

Perché l’economia della conoscenza produce meno valore aggiunto?


Il valore aggiunto è il valore che gli input fondamentali, capitale e lavoro, aggiungono ai così detti input intermedi. Esempi visivi di questa trasformazione possono essere una grande acciaieria, con enormi macchinari per pochi operai. E un’azienda di software, con lavoratori molto preparati e capitali al confronto irrisori. Ipotizziamo che nella prima azienda il macchinario amministrato da un operaio sia di 10 milioni di euro, e il suo salario di 30mila euro l’anno, con una remunerazione del capitale anche solo del 3%, il valore aggiunto sarebbe di 330mila euro. Nella seconda azienda, il capitale amministrato da un ingegnere informatico sarà molto meno, diciamo 300mila euro tra computer, software e anche una quota dell’immobile in cui lavora. Questo ingegnere guadagnerà di più dell’operaio di prima, diciamo 70mila euro l’anno. Se manteniamo la remunerazione del capitale al 3%, il valore aggiunto attuale sarà di 80mila euro contro i 330mila di prima.

Una conseguenza importante di questo processo è la riduzione della quantità di capitale necessaria. Nei paesi avanzati si determina una contrazione effettiva della quantità di capitale in uso nei processi produttivi. Questa ridondanza è all’origine dei processi di ‘finanziarizzazione’. Il capitale ridondante cerca occupazioni alternative. Uno sbocco tipico è l’investimento immobiliare che ha spesso conseguenze patologiche. Una soluzione fisiologica è l’esportazione di capitale sia sotto forma di crediti che soprattutto di investimenti esteri diretti verso i paesi in via di industrializzazione affamati di capitale fisso. In tutti i casi il ruolo della finanza è centrale per smaltire l’eccedenza di capitale.

E siccome il prodotto interno lordo è uguale al valore aggiunto prodotto complessivamente dall’economia, risulta chiaro come il passaggio da un’economia prevalentemente manifatturiera ad una prevalentemente a produzione di conoscenza porti ad una flessione del Pil. Ma in termini di reddito distribuito al fattore lavoro, almeno stando all’esempio, le cose potrebbero migliorare.

Ma anche il prodotto interno lordo – che abbiamo visto essere uguale al valore aggiunto - è da prendere con le dovute cautele. Se si produce tanto valore aggiunto, ad esempio, ma il 50% va a pagare interessi sul capitale preso in prestito, in un certo senso è una voce di costo. Se invece si produce di meno ma con l’80% paga della gente che pensa ma usa la matita e un pezzo di carta o un computer da 300 dollari, forse per il paese è meglio, per la qualità della vita. Certo che risulta che il Pil, calcolato come lo calcoliamo adesso, si è contratto, inesorabilmente.

Che economia sarà?

L’economia che verrà sarà un’economia più leggera, con molta meno manifattura, meno macchinari pesanti, meno inquinamento, più sostenibile da un punto di vista ecologico a cui corrisponderà un’idea di ricchezza e uno stile di consumi in cui quelli culturali e ambientali avranno assunto una grande rilevanza. Già adesso la parte hard dei consumi – cibo e beni durevoli – non è più così preponderante come negli anni ’60 ad esempio. Già da un decennio i consumi si stanno evolvendo in quel senso. Sarà una società più colta e più ecologica, con una qualità della vita migliore.

Questo approdo assomiglia per certi versi a quello prefigurato da Serge Latouche nella sua “economia della decrescita”

E’ vero. Latouche si pone come oppositore, però spesso l’evoluzione del capitalismo è più avanti dei suoi oppositori. O meglio, spesso gli oppositori hanno in mente un capitalismo che non c’è già più. Latouche coglie perfettamente quello che sta succedendo, che sta già succedendo. L’unico difetto del suo approccio, se vogliamo, è pensare che la sua visione sia alternativa. E’ alternativa, certo, ma è un’alternativa che è già dentro le dinamiche intrinseche del sistema. E’ un’alternativa alla manifattura. Ma anche chi produce software o pannelli solari è capitalismo, ma le conseguenze economiche, sociali e di qualità della vita di questo nuovo tipo di capitalismo sono infinitamente diverse rispetto a quelle del tipo che lo precede. 

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Come passare il guado?


Il guado sarà passato quando l’occupazione manifatturiera si sarà ridotta al 9% circa. Nei paesi avanzati di cui parlavamo prima, infatti, l’occupazione manifatturiera sembra proprio arrivare intorno al 9%. E l’occupazione nei Kibs intorno al 20%. Quello che bisogna fare è non trattenere l’occupazione nella manifattura, non spendere per mantenere in vita aziende che non hanno prospettive. Dovremo sostenere invece le aziende innovative dell’economia leggera, con particolare attenzione ai Kibs. Altra cosa da fare sarà assistere tutte quelle persone che perderanno il lavoro e che non potranno più reintrodursi nel mercato del lavoro. E’ poi auspicabile che una fetta di quell’occupazione riesca a rientrare nel mercato magari aprendo attività di accoglienza turistica, un settore che potrebbe diventare molto promettente se adeguatamente supportato dalle nuove tecnologie.

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E come sarà questo passaggio all’economia della conoscenza?


Sarà doloroso per tanti motivi. Prima di tutto dobbiamo “collocare” tre milioni di persone. Un capitale umano spesso disperatamente modesto: centinaia di migliaia di lavoratori con la terza media che non si ricollocheranno più sul mercato del lavoro. Non c’è nulla da fare, è una disperazione, della quale però bisogna essere pienamente consapevoli.

Meglio non difendere la manifattura italiana, quindi?

L’importante è non spendere risorse. Ad esempio Fincantieri. Tenere in vita la Fincantieri rischia di essere l’ennesima spugna di denaro pubblico, e per che cosa? Per dare una speranza totalmente priva di lungimiranza a 5/6mila operai. Io penso che sarebbe meglio dargli la pensione subito, e smantellare Fincantieri. Se invece si pensa a proposte che portino a incrementi di efficienza allora va benissimo. E comunque l’industria la si difende, nel caso italiano, investendo nei servizi Kibs di cui parlavamo prima.

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Assistere i lavoratori e non le imprese


Sì, esattamente. Lei pensi quanti soldi abbiamo buttato via per difendere la produzione di alluminio a Porto Vesme. Era meglio passare uno stipendio di 1200 euro a famiglia, e poi fargli fare lavori socialmente o ecologicamente utili, e chiudere subito quella partita. Dobbiamo difendere i lavoratori ma non le attività produttive.

Per approfondimenti:  “Cristiano Antonelli La mossa del cavallo” Rosenberg&Sellier, Torino, 2010.

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