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Gli States e il panico da “Fiscal Cliff”: tra politiche di austerity e rischio di recessione

La fine del 2012 sta seminando il panico nel Nuovo Continente. Il “precipizio fiscale” rischia infatti di riportare il paese in recessione a partire dai primi mesi del 2013

di Mattia Baglieri 12 dic 2012 ore 10:19
Nell’agosto del 2011 l’agenzia di rating newyorkese Standard and Poor’s ha alzato per la prima volta nella storia il c.d. “rischio paese” riguardo alla capacità di onorare gli impegni finanziari degli Stati Uniti (USA passati dalla tripla A alla doppia A, mentre rimane l’indicazione della massima onorabilità finanziaria secondo le agenzie Fitch e Moody‘s). Ai primi di settembre l’indice Dow Jones ha conosciuto la più alta volatilità della sua storia, con sbalzi di circa il 6% in una sola giornata di scambi (in particolare il 5 agosto tensione alle stelle…). Erano i giorni della discussione sul Budget Control Act e sulle effettive capacità dell’economia statunitense di riprendersi completamente dalla crisi finanziaria che attanaglia il mondo occidentale dal 2008 (peraltro erano anche i giorni più neri della crisi dei debiti sovrani europei che da noi ha condotto alla nomina dei tecnici).

La fine del 2012 sta seminando il panico nel Nuovo Continente, con i quotidiani che dedicano speciali al cosiddetto “Fiscal Cliff”, ovverosia il “precipizio fiscale”, che rischia di portare il paese nella recessione dell’economia reale a partire dai primi mesi del 2013. Se il capo della Federal Reserve Ben Bernanke auspica maggiore disciplina fiscale - ma esprimendosi per una via media nelle politiche di austerity tra riduzione della spesa pubblica ed aumento delle tasse - dalle colonne del New York Times, l’economista Paul Krugman invita il Presidente Obama a promuovere politiche per il lavoro così come promesso in campagna elettorale, almeno mantenendo invariata la pubblica spesa.

Il punto è che Obama non è da solo a fronteggiare i pericoli della recessione, ma il presidente è costretto ad una estenuante contesa quotidiana con il Congresso a maggioranza repubblicana di ben 242 contro 193 (democratici). In questi giorni sono innumerevoli i meeting e le telefonate tra Obama e lo speaker del Congresso John Boehner (repubblicano dell’Ohio). La riforma della sanità, fortemente voluta da Obama, sta costando più del previsto, i fondamentali dell’economia reale sono in stallo con la disoccupazione poco sotto all’8%, mentre alla mezzanotte del giorno di San Silvestro si assisterà alla fine dei tagli all’imposizione fiscale adottati da George W. Bush sin dal 2001 (e prolungati fino a quest’anno elettorale) e all’aumento delle tasse dirette al finanziamento di Medicare.

Restano pochi giorni per trovare un accordo, mentre la cosiddetta Gang of Eight che raggruppa membri democratici e repubblicani della Commissione finanziaria ancora non riesce a far accettare la sua proposta dalla camera. Sono tre le opzioni tra cui entro gli ultimi giorni dell’anno i membri del centododicesimo Congresso degli Stati Uniti devono decidere: 1) il mantenimento della fine dei benefici fiscali adottati da Bush e l’avvio di tagli alla spesa pubblica che porterebbero un effetto positivo intorno alla riduzione di mezzo punto percentuale del deficit sul PIL per l’anno 2013; 2) prolungare la disciplina fiscale di “Bushiana” memoria ed evitare i tagli alla spesa pubblica, sostenendo l’economia reale ma facendo correre il debito pubblico; 3) tentare una strada intermedia tra sostegno alla crescita e politiche di austerity.

I Repubblicani, com’è noto, propendono per il mantenimento della disciplina fiscale di Bush e propongono politiche di riduzione della spesa pubblica del Governo federale, mentre il Presidente Obama non si è detto contrario ad un aumento dell’imposizione fiscale insieme a selezionati tagli della spesa pubblica. Insomma, l’avvio di politiche di austerità non è in discussione. Il Budget Office del Congresso, naturalmente, ha sinora supportato la proposta repubblicana. Anche i principali analisti sono pronti a scommettere che alla fine la prosecuzione della dottrina fiscale di Bush a favore di una bassa imposizione verrà procrastinata anche per tutto il 2013.

Il pericolo maggiore che si teme è che se la legge di bilancio non verrà cambiata all’ultimo minuto, a fronte di un rimpianguarsi delle casse statali di 560 miliardi di dollari provenienti da tasse e diminuzione della spesa, si determinerà anche un rallentamento dell’economia di quattro punti di PIL. Nel 2013 le prospettive per gli Stati Uniti parlano di perdita di circa altri due milioni di posti di lavoro, con aumento della rata di disoccupazione di un altro punto percentuale. Secondo un’analisi curata dalla J.P. Morgan, il tramonto della disciplina fiscale di Bush ricadrà sulle famiglie, sul lavoro e sulle imprese per circa 280 miliardi di dollari; inoltre il risparmio statale conseguente alla diminuzione degli ammortizzatori sociali (i cosiddetti “emergency unemployment benefits” in particolare) ed ai tagli alla spesa pubblica è quantificabile in circa 138 miliardi di dollari. Mancano pochi giorni per cercare di limitare il danno, ma ormai è certo che nel 2013 l’austerità verrà sdoganata anche nell’America di Obama.

Mattia Baglieri
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